David Foster Wallace muore suicida il 12 settembre 2008. “Nelle ore fatali aveva riordinato i materiali affinché la moglie potesse trovarli (…) abbozzi, studi di personaggi, promemoria, frammenti sfuggiti al suo tentativo di radunarli in un romanzo durante l’ultimo decennio. Il suo sforzo di mostrare al mondo ciò che significava essere ‘un fottuto essere umano’”.
Con queste parole si conclude (posso dirvelo visto che si tratta di una biografia) il libro firmato da D. T. Max, “Ogni storia d’amore è una storia di fantasmi”, che non è soltanto il racconto della vita di DFW, ma si rivela anche un volume propedeutico alla comprensione di quello che è stato il più grande romanzo dello scrittore scomparso ormai cinque anni fa, “Infinite Jest”.
Grande in tutti i sensi, per spessore di pagine (più di mille), trame e varietà di significati.
L’opera racchiude i tre periodi stilistici che avevano caratterizzato la produzione di Wallace fino ad allora (1996): dalla voce narrante di spiccata verve comica e vivacità (dei tempi del college), passando per l’infatuazione per il postmodernismo, fino alla conversione ai principi di una prosa scevra di doppi sensi.
Ciascuno di essi corrisponde pressappoco a una delle tre linee narrative principali del romanzo:
- la seconda è la trama distopica che funge da fondale dell’intero romanzo, dove di Stati Uniti in un futuro prossimo formano con Canada e Messico la cosiddetta Organizzazione delle Nazioni dell’America del Nord;
- la terza invece è la passione di Don Gately, vicenda ambientata quasi interamente nella trasposizione letteraria della Granada House (casa di recupero per tossici).
Attraverso questa struttura e il suo linguaggio decisamente innovativo, Wallace indaga il rapporto tra le persone e i media e di come questi modifichino il nostro modo di vivere le emozioni.
“Nell’epoca della società dello spettacolo non siamo che menti che attendono di essere riempite (…) manipolate dai media”.
Il riferimento è ovviamente alla Tv, che incarnava all’epoca un potere enorme: “Aveva già modificato la narrativa frammentandone i contenuti, rendendo le storie più brevi, appetibili e compiacenti. Tutto (…) soccombeva davanti a questo distributore di banalità”.
Wallance non sapeva ancora quanto la sua teoria sarebbe rimasta valida nel tempo, “Infinite Jest”, infatti, divenne ancora più popolare e comprensibile per la generazione che vedeva crescere e insinuarsi nel proprio quotidiano una cosa chiamata Internet.
“Il pericolo non era più quello di una totale estraneazione, bensì di una frammentazione inesorabile (…) Gli americani non subivano più l’intrattenimento, lo sperimentavano freneticamente (…) Il Web offriva un diverso modo di fuggire da se stessi, ma in realtà la fuga non era meno vana”.
Eppure, lo stile di Wallace, caratterizzato da improvvise variazioni di registro si dimostrò perfetto per il nuovo medium. La Rete sembrava adatta per le congiunzioni multiple in apertura di frase, le pratiche del collage e del pastiche. Quindi, anche senza parlare di cultura elettronica, il libro, secondo molti critici, incorporava già alcune delle energie decentranti che la tecnologia dei computer cominciava a rilasciare nella società.
Ma questo attirò anche diverse stroncature, come riporta Max, altrettanti critici accusarono Wallace di aver tradito le aspettative del pubblico imponendogli un romanzo così corposo, ma privo di una classica conclusione. In realtà, il suo intento era proprio quello di voler scuotere il pubblico dallo stato di passività verso l’intrattenimento per renderlo invece più partecipe. Insomma, l’idea di fondo era che se il lettore voleva un finale doveva cercarselo da solo.
“A un certo punto alcune linee parallele dovrebbero cominciare a convergere in modo da proiettare una ‘fine’ al di là della struttura fisica del libro”.
“Infinite Jest”, quindi, ripropone i paradigmi dei nuovi sistemi di comunicazione diffusa, ma allo stesso tempo traccia una via d’uscita per non farsene completamente disumanizzare; pratica “il massaggio cardiaco agli elementi di umanità e di magia che ancora resistono e luccicano malgrado l’oscurità dei tempi”.
“La narrativa parla proprio di cosa significa essere un fottuto essere umano”.