Esplicitiamo subito: la merda è merda e non cacca, un culo è un culo e non un sedere, e farsi pisciare addosso è farsi pisciare addosso e non urofilia. Rivendicata, con provocazione, l'uguaglianza terminologica usata in questa recensione come propedeuticità necessaria a quella umana (se non vi fossero parole degradanti forse avremmo meno razze degradate) passiamo ad esaminare due film che hanno fatto la storia del sequestro cinematografico in Italia: Sweet Movie (1974) di Dušan Makavejev, e Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975) di Pier Paolo Pasolini. Entrambe le pellicole rappresentano infatti il punto più alto (e quello più basso) di quell'odioso provvedimento giudiziario che ritirava dalle sale i film che attentassero alla salute pubblica del Paese con le loro oscenità. Bastava un pretore di una qualunque città - nel caso dell'ultima pellicola di Pasolini quello del ceramico borgo di Grottaglie situato in provincia di Taranto - a bloccare la circolazione delle bobine. Anche il lungometraggio del regista jugoslavo ritardò l'uscita nelle sale a causa di un sequestro comminatogli. Si era nel decennio ideologicamente più combattuto, dove a un granitico blocco di pensiero cattolico/gesuitico si contrapponeva l'irrefrenabile erosione di forze avanguardistiche. In questo agone di pensiero, che spesso si trasformava in vera e propria arena, gli intellettuali spinsero al massimo le proprie provocazioni. Le due opere in questione ne sono gli esempi più lampanti.
Partiamo da Sweet Movie. Il film di Makavejev narra le travagliate peregrinazioni di Miss Canada, interpretata dalla bella Carole Laure. Come nella maggior parte delle pellicole a tappe ognuna di esse è programmatica e vuole sferrare un preciso attacco ai due giganteschi imputati dell'opera: il capitalismo e il comunismo. Il regista si serve della sua vena surrealista, grottesca e simil-anarchica per irridere le due maggiori forme di Potere imperanti in quegli anni. Accusato all'epoca di eccessivo cripticismo, a distanza di quarant'anni e delle tante letture che ne sono state date, le sue metafore oggi risultano se non lapalissiane quantomeno intuibili. Soprattutto quelle rivolte alla critica del capitalismo si servono di strutture e sovrastrutture marxiste facilmente identificabili. Mr. Dollars, il tycoon del latte, che compra la "luminosa" verginità (si veda l'apposita scena del film) e la bellezza della protagonista Miss Canada si esprime secondo il solito gergo triviale degli arricchiti. Vuole infatti togliere l'acqua dalle splendide cascate del Niagara per farne un grande laser cibernetico. Anche il finale, seppur visivamente molto originale, fa soffocare Carole Laure e la cifra metaforica del film in una vasca cioccolatosa di ingenuità.