C’è un fatto che negli ultimi tempi mi sta dando non poco da pensare; mi sto poco a poco rendendo conto che talune contrapposizioni, di natura perlopiù politica, che ho sempre considerato come sostanziali, hanno natura tutto sommato illusoria. Destra e sinistra, liberalismo e socialismo, capitalismo e anti-capitalismo: tutte categorie in base alle quali ero solito orientarmi, e relazionarmi alle posizioni altrui, sono, a mio avviso, categorie che, più che agevolare la comprensione del reale, la limitano, impedendo, di fatto, un’appropriata decodificazione delle dinamiche e delle situazioni che ci troviamo di fronte. Per quanto, come brevemente cercherò di mostrare, abbiano perso capacità esplicativa, esse continuano a vivere nella mente delle persone. La mia idea è che esse vanno a soddisfare un bisogno di identificazione e, corrispondentemente, di esclusione; soddisfano l’innata tendenza alla faziosità, al campanilismo; soddisfano l’esigenza di pensare il mondo per estremi, per contrapposizioni: bianco e nero, guelfi e ghibellini, comunisti e fascisti. Da un lato quelli come noi, dall’altro quelli diversi da noi; da un lato i miei amici, dall’altro i miei nemici. Soddisfano, infine, l’esigenza, connaturata alle dinamiche clientelari dell’attuale sistema democratico, di ricevere (e concedere, se ci poniamo dal lato dei partiti) favori, concessioni, sussidi e risorse nel momento in cui il nostro gruppo di riferimento arrivi a prendere il potere.
Nell’uomo esiste una manifesta propensione alla partigianeria. Sembra quasi che se non ci si schiera, se non si tiene per una parte piuttosto che per un’altra, non si venga percepiti. Tale fenomeno lo si osserva fin dalle età più tenere. Pensate a quanto forte è tra gli adolescenti: essere di destra piuttosto che di sinistra, vestire in un modo piuttosto che in un altro. Essere una “zecca” o un “fascio”, come si dice a Roma; uno che frequenta certi posti, certa gente, piuttosto che altri posti ed altre persone. Da un lato questo è un meccanismo di identificazione: serve a chi ci incontra a capire cosa si trova di fronte; a diminuire il rischio dell’ignoto; se sai che persone frequento, quali sono le mie idee politiche, e così via, allora è più facile inquadrarmi. Dall’altra funge come meccanismo escludente: se non sei della mia parte, allora sei della parte avversa. Il mondo, le aspettative collettive, ci chiedono di militare; si aspettano il nostro esser faziosi; ed è difficilissimo sottrarsi a tale aspettativa, tanto più quando si è giovani, quando si è come un vaso vuoto che non aspetta altro che esser riempito. In quel periodo in cui, noi stessi ignari del “chi si è”, ci si illude di definirlo attraverso l’affiliazione, la militanza, il far parte di qualcosa di più grande di noi, che diventa così a pieno titolo parte integrante della nostra identità. D’altronde è un meccanismo che affonda nella notte dei tempi, al punto da esser insito nel nostro esser uomini; non far parte d’un gruppo, d’una tribù, nei tempi antichi corrispondeva ad andare incontro a morte quasi certa; non si poteva sopravvivere (o era comunque molto difficile) senza l’affiliazione e il sostegno d’un gruppo. È innaturale far parte a sé.
Tale tendenza non è però scevra da problemi: l’aderire ad un gruppo, lo sposarne gusti, atteggiamenti, pensieri e modi di vedere la vita, se ad un certo punto della vita può fungere da puntello alla nostra identità, col passare del tempo rischia di tramutarsi in un intralcio, in una sorta di vestito oramai troppo piccolo, che mal si adatta alla figura. Tuttavia molte persone preferiscono tenersi un vestito palesemente inadeguato, piuttosto che buttarlo a mare, decidendo di ritagliarsene uno su misura. Parlando fuori di metafora, ciò che voglio sostenere è che l’individualità è gravemente ostacolata dall’aderire pedissequamente, e per troppo tempo, alle tesi d’un gruppo (di qualsiasi gruppo si stia parlando). Diventare compiutamente individui significa avere il coraggio di rinunciare alle facili contrapposizioni partigiane, ma significa anche tradire, rinnegare la parte per cui si è militato. Con il rischio, se la militanza per quel gruppo era percepita come parte di noi stessi, di percepire il tradimento come tradimento verso se stessi. Significa rendersi conto che la logica secondo cui noi, e quelli come noi, sono quelli buoni, quelli che hanno capito; mentre gli altri sbagliano e non hanno capito nulla, è una logica deficitaria. Ma alla quale è impegnativo sottrarsi. E’ difficile anche perché, se la collettività ragiona in base a contrapposizioni perlopiù binarie, se ti opponi ad A, allora sei classificato ceteris paribus come sostenitore di B; e viceversa.
Anche per l’esistenza di tale robusta impostazione, è divenuto arduo accorgersi che i partiti che si sono nell’ultimo secolo fatti portatori di istanze, in origine anche distanti, a conti fatti hanno agito esattamente nella stessa direzione, differenziandosi, per motivi di marketing, solo a livello di retorica.Tutti hanno spinto verso l’edificazione d’uno stato sempre più grande, sempre più invadente, sempre più totalitario. I dati sull’incidenza del peso dello stato sul Pil in tutte le nazioni del mondo sviluppato sono li a dimostrarlo; tutti hanno, infine, scorto nello stato un modo per rafforzare il proprio potere.
Ancora oggi pensiamo che esser di destra o di sinistra costituisca un porsi su due punti idealmente distantissimi, espressioni di interpretazioni divergenti del mondo. Ma è sufficiente ascoltare senza preconcetti quel che dicono da un lato i militanti di Casa Pound, dall’altro i militanti d’un qualsiasi centro sociale di sinistra, per rendersi conto che dicono esattamente le stesse cose. In forma meno estrema basterebbe sentire i comizi d’un Bertinotti, e d’uno Storace, per rendersi immediatamente conto di quanto le loro posizioni siano largamente similari. In casi come questo non solo ci troviamo di fronte a formazioni politiche che, quando si sono trovate a dover gestire il potere hanno agito esattamente nella stessa direzione: abbiamo di fronte formazioni che si dichiarano antitetiche, ma che dicono le stesse identiche cose. E neanche questo basta a palesare, agli occhi dei più, quanto il re sia nudo.
Un po’ più sofisticate appaiono le formazioni principali dell’attuale panorama politico italiano, quali PD e PDL; che perlomeno tentano di marcare le reciproche differenze, diversificando lo stile comunicativo. Ma anche qui, basterebbe un po’ d’analisi storica per rendersi conto di quale balla totale si tratti. Nel 1852 un Marx particolarmente lucido scriveva: “come nella vita privata facciamo distinzione tra quello che una persona pensa e dice di sé stessa e quello che essa realmente è e fa, così nelle lotte politiche occorre distinguere ancor più le enunciazioni e i bei discorsi dei partiti da quello che è il loro reale essere e i loro reali interessi, la loro concezione di sé stessi dalla loro realtà” .
Politici di destra come di sinistra, liberali e socialisti, pro-mercato e contro il mercato, tutti (fuori di qualche sparutissima eccezione) hanno contribuito all’edificazione del regime contemporaneo; e ancor di più dell’uomo contemporaneo, ridotto al rango di consumatore imbelle, che non a torto Marcuse non esitava a definire “ad una dimensione”. Ideologie come liberalismo e socialismo che, seppur in divergenza su taluni punti, in origine miravano all’emancipazione dell’uomo; che cullavano valori come l’autonomia, l’autogoverno, la cooperazione e il libero scambio, hanno subito un pervertimento totale ad opera dei politici che se ne sono fatti interpreti; sono riusciti a piegare tali concezioni ai loro voleri al punto da trasformarle in ideologie a supporto della macchina statale: “Nella realtà dei fatti, da lungo tempo, liberalismo e socialismo non sono altro che due foglie di fico ideologiche che servono a dare una parvenza di nobiltà intellettuale allo stato e a coprire gli esponenti politici delle due ideologie mentre rubano a piene mani, con la destra e con la sinistra, nascondendosi dietro un presunto interesse pubblico.” (Fonte)
Statalismo e nazionalismo sono gli ombrelli sotto cui si sono accomodati i partiti di tutti i segni e colori; e nemmeno i clamorosi esiti in termini di crisi, guerre, stermini di massa e quanto altro gli stati di tutto il mondo hanno conseguito nell’ultimo secolo, sono serviti a minare la fede nell’ultimo vero oggetto sacrale rimasto all’uomo contemporaneo: lo Stato. Facendo mostra a ritmi alterni del volto feroce, come del volto benevolo; riuscendo, grazie alle leve della scuola di stato, delle burocrazie e degli apparati amministrativi, degli intellettuali, a convincere tutti che senza stato non v’è salvezza; che senza stato si cade nell’anarchia, nell’homo homini lupus, nella lotta di tutti contro tutti; che solo mediante esso si può far fronte ai problemi che, di volta in volta, ci troviamo ad affrontare; che la soluzione alle crisi economiche è, guarda caso, un più massiccio intervento dello stato. E non è un caso se, ad ogni episodio di crisi verificatosi nell’ultimo secolo, lo stato ha colto la palla al balzo al fine d’estendere i propri poteri, e per diminuire, contestualmente, lo spazio di libertà ed autodeterminazione delle persone; successe nel ’29, cui si rispose con il New Deal; successe con le guerre mondiali, durante le quali lo stato si trovò ad aumentare il proprio controllo sulla società e la propria produzione a fini bellici, senza poi tornare ai livelli antecedenti; è successo dopo l’11 settembre, con la sospensione di diritti che sembravano indisponibili, ed acconsentendo a violazioni della privacy, in nome della sicurezza, impensabili fino a qualche tempo fa.
E non ci si faccia ingannare dall’apparente svolta neo-liberale a cavallo tra anni 80 e 90, portatrice di apparenti misure liberali quali liberalizzazioni, privatizzazioni, deregolamentazioni e quanto altro; non sono infatti queste misure tali da aver realmente intaccato il potere di stato (al più ne hanno momentaneamente frenato l’espansione); più verosimilmente lo hanno rimodulato; invece che occuparsi in prima persona della produzione della gran parte dei servizi, come negli anni ’60 e ’70, si è deciso di appaltarla, in modo da aumentare la produttività, limitandosi poi a fungere da esattori di quanto prodotto, mediante il prelievo fiscale; si sprona le mucche a mungere sempre più latte, e poi glielo si sottrae: “In altre parole, la nuova concezione del ruolo dello stato è quella di lasciare più spazio all’economia perché lavori (quasi) indisturbata in modo che produca beni e servizi in quantità crescente. L’obiettivo è quello di drenare risorse da un apparato produttivo più efficiente attraverso un elevato prelievo su beni e servizi (in Europa l’imposta sui consumi va mediamente dal 15 al 20% del prezzo finale). Le risorse così assorbite sono quindi utilizzate per pagare i servitori dello stato, per assistere, per quanto possibile, alcune categorie di sudditi dello stato, e per proteggere i governanti da quelle che sono ritenute minacce all’interno e dall’esterno (dissidenti, immigrati, minoranze).“ (Fonte)
L’unico che, recentemente, sia andato vicino a dichiarare il re nudo in pubblico è stato Grillo, quando ha detto, nei suoi soliti “civilissimi toni”, che i partiti sono tutti uguali, che fanno tutti le stesse cose, ed al fondo pensano anche le stesse cose. L’ unica differenza riscontrabile tra i diversi partiti è nei gruppi che poi si ritrovano ad esser beneficiati della ascesa al potere del partito X piuttosto che Y.
Distinzioni false, di facciata; che, pur tuttavia, per i motivi che abbiamo sopra espresso, continuano a sussistere, a condizionare l’agire e il pensare delle persone; complice una situazione materiale ben definita, ma complice anche la struttura mentale dell’uomo, spontaneamente portato a ragionare per contrapposizioni elementari. Ciò lo si evince, ad esempio, dai proclami dei supporters dei vari gruppi/partiti, che da un lato continuano a inveire contro il capitalismo o contro il liberismo. Senza rendersi conto che il capitalismo originario si è nel tempo trasformato in qualcosa di estremamente diverso, sino a snaturarsi del tutto; che è molto più correttamente descrivibile con il termine di neo-mercantilismo, stante la realtà che abbiamo quotidianamente di fronte; non è un caso che in situazioni di difficoltà e crisi economica, si richieda che proprio lo stato debba far qualcosa. Perché è precisamente lui, e le sue nuove incarnazioni sovranazionali, l’attore protagonista di questo film dell’orrore nel quale viviamo.
Così come i (pochi per la verità) supporters delle idee liberali, che se la prendono con le idee socialiste, non avvedendosi di quanto l’attuale sistema abbia ben poco a che spartire con le originarie idee dei padri del socialismo, quali Charles Fourier, Robert Owen, Proudhon, ed in parte lo stesso Marx; non s’avvedono che le originarie aspirazioni di questi pensatori non miravano al rafforzamento del potere totalitario di stato (anche se Marx contribuì non poco nel far affermare un tale tipo equivoco); tali socialisti classici erano favorevoli alla produzione industriale ed al libero scambio, favorevoli al godimento della proprietà da parte di tutti, favorevoli all’emancipazione materiale e intellettuale di tutti gli individui. Erano convintamente internazionalisti, contro le barriere doganali per merci e persone, convinti che con lo scambio e la cooperazione si sarebbero conseguiti livelli di pace e di benessere più elevati per tutti. Tutti obiettivi traditi dai successivi sviluppi; tutti obiettivi, infatti, inesorabilmente in contrasto con il rafforzamento dei singoli stati, interessati al proprio consolidamento, ed in lotta con gli altri stati prima militarmente, ed oggi economicamente.
Come il liberalismo padronale costituiva un pervertimento delle originarie idee liberali, così il socialismo autoritario, che ha creduto di poter emancipare l’uomo servendosi del potere statale, ha costituito un pervertimento degli antichi ideali socialisti. Ideali rinnegati da ambedue le parti; parti in ultima istanza concordi nella volontà consolidare il proprio potere sulla società; concordi nell’estrarre più risorse possibili da indirizzare in clientele e sostegni elettorali; uguali nella sostanza, diversi quanto diversi possono essere un jeans della Levi’s e della Diesel; pura diversità di facciata.
Se le contrapposizioni, come spero di aver mostrato, sono fittizie, la prima cosa da fare è smettere di parteggiare per gli uni piuttosto che per gli altri; ogni volta che si parteggia, che si partecipa al circo democratico/elettorale, si manifesta un implicito consenso verso la vera ideologia sottostante, di cui tutte le parti in causa, senza esclusione, sono espressione: lo statalismo. Destra e sinistra, capitalisti e anticapitalisti, liberali e socialisti, sono lati di uno stesso dado: lo stato.
Opporsi all’una piuttosto che all’altra; parteggiare per l’una piuttosto che per l’altra, significa parteggiare per lo stato; e, quindi, contro le persone, contro la libertà, contro la creatività e l’innovazione. Misure apparentemente liberali come privatizzazioni e liberalizzazioni, hanno avuto la conseguenza di mantenere meglio di prima a galla questo mostro, illudendo le persone circa una maggiore libertà di azione; e se questo significa esser liberali, allora io non lo sono, e non posso più dichiararmi tale. Allo stesso tempo spero che gli amici socialisti si rendano conto che le politiche, che per tanti anni sono state portate avanti dai partiti di sinistra, nulla hanno a che spartire con l’originario contenuto cui alludevo prima.
Se come me trovate insostenibile la situazione nella quale siamo precipitati, risulta evidente che è impossibile parteggiare per una parte o per l’altra. E’ invece necessario fuoriuscire dall’empasse delle false contrapposizioni, iniziare a pensare al di là di queste, rinunciando alla naturale tendenza alla faziosità ed al campanilismo, permanendo nella quale non facciamo altro che alimentare quel che invece dovremmo osteggiare.
Tratto da http://thefielder.net/