1 luglio 2013 di Dino Licci
Gustave Doré: Don Quijote de La Mancha and Sancho Panza, 1863 (da Wikipedia)
Il “Don Chisciotte” di Cervantes nasce come critica alla mania invalsa alla fine del ‘500 in Europa e soprattutto in Spagna di immergersi nella lettura dei romanzi cavallereschi importati dalla Francia. Il fenomeno dei “Lettori impazziti” veniva così sottolineata da Cervantes che, inventandosi questo strano personaggio, voleva appunto fare uno spaccato della società del tempo. Ma il personaggio acquista valore e spessore quando l’autore, forse suo malgrado, ne fa l’emblema della capacità tutta umana di compendiare realtà e fantasia, quella fantasia che interviene a correggere i mali di una realtà a volte tropo cruda per essere accettata supinamente. Così il lettore viene trascinato dalla simpatia che il personaggio ispira, seguendolo nei suoi voli pindarici, che gli fanno scambiare i mulini a vento per malefici giganti o un branco di pecore per un esercito nemico. Il suo fido scudiero Sancho Panza lo riporta continuamente a scontrarsi con la realtà in un gioco apparentemente semplice ma carico di significati psicologici di alto valore morale. Il romanzo risente inoltre delle disavventure del suo autore e, come sempre accade, acquista un vago sapore autobiografico. Cervantes infatti aveva partecipato alla battaglia di Lepanto e, pur essendosi comportato da eroe, era stato dimenticato da tutti finendo in carcere gli ultimi anni della sua vita. Nel “Don Chisciotte” quindi egli volle evidenziare l’assurdità invalsa in quell’epoca, di glorificare gli eroi immaginari della letteratura cavalleresca, dimenticando la realtà quotidiana di chi valorosamente compiva semplicemente il proprio dovere. Ma se queste erano le intenzioni iniziali dell’autore, il suo romanzo acquisisce sempre maggiore spessore ed il personaggio grottesco dell’anziano hidalgo, presto si trasforma in una tragica parodia dell’umanità delusa da una realtà tanto penosa da costringerlo a rifugiarsi nel sogno o nella pazzia.
Dalle pagine del romanzo erompono le contraddizioni dell’animo umano, la sua capacità d’astrazione, la sua ambivalenza, la sua fisiologica contraddizione tra un emisfero di destra votato all’immaginazione, all’arte, al sentimento ed un emisfero sinistro deputato al calcolo e al raziocinio.
I due protagonisti personificano bene questa dicotomia atavica dell’uomo con un Don Chisciotte che riesce ad affascinare il popolano Sancho, uomo grezzo con i piedi ben piantati per terra, ma che lo segue nelle sue stravaganti gesta forse sedotto dalle promesse della gloria futura.
Bisogna cogliere la sottile ironia con cui Cervantes combatteva la decadenza morale dei suoi tempi ed il suo modo tutto particolare di combattere l’inquisizione, le eresie, gli idealismi di ogni genere.
Il testo di Cervantes si presta ad essere interpretato diversamente a seconda dell’attenzione che il lettore gli dedica. E molta attenzione dovette dedicargli Nietzsche, che s’identificò in lui quasi presagendo la sua futura pazzia. Nelle parole del Don Chisciotte morente c’è infatti un messaggio filosofico che Nietzsche non condividerà del tutto e forse anche nella “decostruzione” del più attuale Derridà si potranno trovare i germi di una trasvalutazione dei valori operata del filosofo tedesco ma che affiorano anche nelle ultime parole del nostro eroe:
“Il mio intelletto è ora libero e chiaro senza le ombre caliginose dell’ignoranza, in cui l’aveva avvolto la continua e detestabile lettura dei libri di cavalleria. Io riconosco ora le stravaganze e i loro inganni, e mi duole soltanto d’essermene accorto troppo tardi, poiché non mi resta più tempo di compensare il mio fallo con la lettura d’altri libri che possano illuminarmi l’anima. (…)Vorrei morire in modo da far capire che la mia vita non è stata tanto cattiva da meritarmi la reputazione di pazzo: perché sebbene lo sia stato, non vorrei confermare questa verità con la mia morte”
Morendo Don Chisciotte si toglie una maschere di sapore pirandelliano e finisce per smentire e negare se stesso:
“Rallegratevi con me, signori miei, perché io non sono più Don Chisciotte della Mancia, ma Alonso Chisciano, a cui gli esemplari costumi meritarono il nome di buono(…)Ormai mi sono odiose tutte le storie mondane della cavalleria errante.”
Una morte insignificante, un colpo mortale per un’umanità che viene perdendo i suoi sogni, le sue illusioni, la sua fantasia. Per questo la sua morte non piace a Nietzsche, per questo le parole del fido Sancho acquistano un profondo significato morale ed una cocente delusione:
“Non muoia , signor padrone, non muoia. Accetti il mio consiglio, e viva molti anni, perché la maggior pazzia che possa fare un uomo in questa vita è quella di lasciarsi morir così senza un motivo, senza che nessuno lo ammazzi, sfinito dai dispiaceri e dall’avvilimento. Su, non faccia il pigro, si alzi da questo letto, e andiamocene in campagna vestiti da pastori come s’è fissato, e chissà che dietro a qualche siepe non si trovi la signora Dulcinea disincantata, che sia una meraviglia a vedersi. Se Lei muore dal dispiacere d’essere vinto, la colpa la dia a me, dicendo che la scavalcarono perché io avevo sellato male Ronzinante…”