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Il dono (1937, tit. or. Дар, Dar) è l'ultimo titolo del periodo russo di Vladimir Nabokov (Pietroburgo 1899 - Montreux 1977), prima che questi emigrasse in un altro stato e in un'altra lingua, l'America. Romanzo-mondo, narrativo e allegorico insieme, appartiene a quella categoria rara di opere che educano il loro lettore a una confidenza mediata e intellettuale, anche quando non piena, non assoluta, non empatica. Intessuto di tutta la più elevata tradizione letteraria russa, Il dono è senz'altro di difficile lettura per un italiano che voglia davvero capire molti snodi della vicenda; rimane tuttavia un libro ipnotico, che avvita alla poltrona con la forza autentica del genio.
Diviso in cinque lunghissimi capitoli (un centinaio di pagine l'uno, in media), Il dono di Nabokov ci presenta un giovane poeta emigrato a Berlino alle prese con il perenne silenzio sulle sue opere, variegato talvolta da cauti apprezzamenti. Si tratta di Fëdor Kostantinovič Godunov-Čerdincev (e già la complessa onomastica è tutto un programma letterario), squattrinato e dotato per giunta di una sua puntuale sensibilità artistica:
Fëdor Kostantinovič pensava con penosa sensazione di disgusto alle poesie che aveva scritto fino a quel giorno, alle parole-fessure, alle fughe di poesia, ma al tempo stesso pensava già con un'orgogliosa e lieta e energia, con una frenetica impazienza, alla creazione di qualcosa di nuovo e ancora sconosciuto, qualcosa di autentico che corrispondesse pienamente al dono che sentiva in sé come un fardello.
Suo è, appunto, il dono a cui fa riferimento Vladimir Nabokov nel titolo. Suo l'io autoriale che sbuca, con sorniona prepotenza, nelle pagine di un romanzo che sembra mandare in rovina il dettame della terza persona: ora importanti inserti (epistolari o, soprattutto, diaristici), ora una sovrana (e, direi, anche sbruffona) libertà scardinano qualunque pretesa di andamento lineare del romanzo. La voce, sia chiaro, è sempre quella, le esigenze critiche riescono a fare da sottotraccia, senza contare, appunto, il Leitmotiv del dono, ma ognuno dei capitoli è come la declinazione di un modello, di una sfuriata goliardica contro il dogmatismo sociale e politico di una Russia da cui Nabokov prende sempre più le distanze.
Anche per un uomo come me, impreparato a cogliere gli indizi di una tradizione inesauribile e, in buona misura, lontana dai valori della letteratura europea classica, Il dono è un serbatoio di sorprese. Il godimento alle avventure di Fëdor Kostantinovič è, in buona sostanza, pieno anche quando la comprensione ne è in parte monca. Del resto, autori ed eroi della cultura russa vi appaiono con la stessa disinvolta naturalezza di personaggi, tutti immersi come sono in una rete dove ciò che conta è la prossimità o meno a un modello letterario. Circoli e salotti non sono laboratori produttivi di significato o di storia, bensì teatri di maschere, ora schizzate, di immaginifica potenza tutta russa, ora invece rifinite con un gusto sopraffino per i dettagli di più spietata comunicatività.
Vladimir Nabokov ha la forza di un ritrattista, capace di dar corpo a fantasmi mentali, eppure nitidi, folgoranti. Si individua il tipo dietro ogni personaggio, ovvero un preciso segmento della popolazione russa, come se questa fosse chiamata tutta, magari suo malgrado, a dibattere su temi di estrema importanza. A maggior ragione, dunque, rileva notare il progressivo dipinto del padre, un avventuriero entomologo. Nel secondo - e, a mio avviso, il più intenso dei cinque capitoli - il ritratto dell'uomo perduto chissà dove dietro le sue farfalle prende la forma di un libro mai scritto: per parte sua, semmai, il protagonista dei ricordi e delle ricerche di Fëdor Kostantinovič conferisce un sapore intimo e profondo a quel processo di identificazione del figlio nel padre (processo ancora più suggestivo, se si pensa che Nabokov era, per parte sua, un entomologo).
La biografia mai scritta di un uomo così importante funge da contraltare per il libro che invece Fëdor Kostantinovič scrive, il saggio su Nikolaj Gavrilovič Černyševskij, croce e delizia di una certa tradizione russa, verso cui peraltro l'autore nutre un profondo disprezzo: in definitiva, l'affetto rende impossibile al poeta il lavoro che invece l'acribia concede allo storico. In quel quarto capitolo, summa del pensiero rivoluzionario di certa manualistica di regime, Nabokov ci regala un ulteriore romanzo nel romanzo, la prova di come un'opera possa acquisire nuove dimensioni senza con ciò ridursi a mere prospettive metaletterarie.
Fëdor Kostantinovič Godunov-Čerdincev e la sua opera vengono squadernati in una serie di prove personali affrontate con la naturalezza e l'incoscienza del giovane artista in esilio. È per questo che il tema del dono, chiave risolutiva di un percorso narrativo a tratti enigmatico, nel quinto capitolo esplode: superando la mera allusione, in una vertiginosa scalata, Nabokov sfiora il tema fondamentale del donatore. La risposta dell'autore è laica, senz'altro poco disposta a concessioni metafisiche, propensa semmai a interrogarsi sul modo migliore di spendere questo bene che isola l'intellettuale nella società e lo rende unico. La sequenza pantomimica e beffarda in cui Fëdor Kostantinovič deve spiegare all'inviperito e teutonico poliziotto l'incidente che l'ha portato a camminare tutto nudo per Berlino è allora la prova di una dissacrazione definitiva di qualsiasi autorità di fronte alla libertà e al genio.
Addio romanzo! Neanche ai sogni concede proroghe la morte: sparisce Onegin, come ogni eroe dalla veloce sorte libresca. Puškin s'allontana seguendo l'ombra di Tat'jana. Ma non vogliamo dire addio alle visioni, e un brusio non tace: musica del fato. Scompare Fëdor al suo suono, a pagina -- del Dono. Ma il nostro sogno è già in agguato dietro le diafane rovine del Libro. Che non ha mai fine.
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