Vive in una casa sui tetti di Roma e dà lì fotografa i tramonti nel cortile. Sceneggiatrice di Fantaghirò e Don Matteo, di recente ha girato Vera, un documentario su una donna scampata all’Olocausto. Il suo primo romanzo Eva dorme è alla quinta ristampa: in primavera uscirà la sesta edizione, tascabile, e l’e-book. Lunedì il libro uscirà in Germania, questa estate in Olanda e nel gennaio 2012 in Francia… con Gallimard!
Sei anche una brava cuoca come la tua protagonista?
Me l’hanno chiesto in molti dopo aver letto il libro! Purtroppo no, non sono brava come lei. Mi è sempre molto piaciuto mangiare bene però, e quindi fin da piccola mi cimentavo in cucina, sperimentando. A tredici anni inventai la béchamelle, poi purtroppo dovetti constatare che non ero arrivata prima. Poi la vita di famiglia, dover cucinare due pasti al giorno, ogni santo giorno, per giovanissimi conviventi dai gusti più inclini ai bastoncini di pesce che al coq au vin, mi ha un po’ fatto perdere la fantasia. Ma ogni tanto mi piace ancora.
Cominciamo dal viaggio. Nella tua vita ci sono tanti spostamenti. Hai soggiornato in Asia, Nuova Zelanda e Stati Uniti, poi per anni in Alto Adige… e anche il tuo romanzo è un viaggio nello spazio e nel tempo. Che significa per te viaggiare?
Tante cose: allontanarsi dalle definizioni fisse di sé, esporsi alla vulnerabilità di essere ospite in terra altrui, fare quella semplice ma stupefacente esperienza che è scoprire che noi e la nostra cultura non siamo né il centro né il meglio del mondo. Ma, se proprio dovessi sintetizzare in una frase sola direi: viaggiare è esercitare l’attenzione. Essere circondati dall’inconsueto obbliga ad essere attenti, non solo perché è tutto interessante e nuovo ma anche perché dobbiamo nutrirci, parlare con persone con cui non condividiamo la lingua, proteggere la nostra incolumità, non offendere gli usi locali ecc. Certo, non sto parlando di viaggi in gruppi organizzati…
Che cosa hai portato da questi viaggi?
Credo, spero, una qualità dello sguardo. Essere in viaggio è un modo di essere nel mondo, non stare a un tot di chilometri dalla propria casa. La mia aspirazione è riuscire a camminare per le strade del quartiere dove vivo con la stessa attenzione, leggerezza e curiosità di quando sbarco in un posto lontano mai visto prima. Non sempre ci riesco, ovviamente, ma quando succede anche le cose più familiari possono essere come illuminate. E poi viaggiare alimenta, per dirla con le parole di “Un tram chiamato desiderio”, la fiducia nella gentilezza degli sconosciuti: da loro spesso devi dipendere per la tua sopravvivenza ed incolumità. Inevitabilmente nasce poi lo spontaneo desiderio, quando sei tornato a casa tua, di reciprocare.
Appassionata di montagna, hai vissuto 15 anni in Alto Adige, dove hai una casa in cui torni spesso. Nel tuo romanzo definisci il Sudtirolo “la terra verticale”: che rapporto hai con la montagna e con l’altezza?
La copertina tedesca di "Eva dorme" in uscita in Germania
Sono sempre stata attratta dall’altezza, dallo staccarmi da terra. Le mie case sono sempre state attici. Da bambina ero sempre lì che mi arrampicavo su tutto, rocce, pendii, mobili. Ma il rapporto davvero stretto l’avevo (l’ho tuttora) con gli alberi. Ce n’era uno nel giardino della casa in Val Gardena, praticamente io vivevo lì, mi portavo provviste e libri e non scendevo per ore. Quando avevo 24 anni l’hanno dovuto abbattere, ho pianto come per la morte di un amico. Era un abete rosso.
Il mio rapporto con la montagna non lo saprei descrivere, ci vado da quando sono nata, camminare per me è importante quasi come respirare. Sarebbe come chiedermi il mio rapporto con il cielo. La qual cosa credo che c’entri: ho sempre amato volare, ancora ora se prendo l’aereo chiedo il posto accanto al finestrino, non credo mi stancherò mai di guardare il pianeta dall’alto. Se credessi nella reincarnazione sarei convinta di essere stata un volatile nella vita passata. L’unica poesia dichiaratamente autobiografica che ho scritto s’intitolava proprio così: Volatile. Che poi se ci pensi è anche un aggettivo…
Ed è per questo che da piccola hai provato a volare?
Quando avevo cinque anni venni a sapere che ciò che ci lega alla terra è la forza di gravità. Imparai anche che essa non si estende all’infinito ma solo in una fascia limitata di spazio intorno al pianeta. Io abitavo al quinto piano – l’attico, of course – e pensai ‘figurati se quassù c’è ancora, la gravità…’ Decisi così di buttarmi dalla finestra e finalmente volare. Però avevo animo scientifico e pragmatico e prima feci le prove con le marionette del mio amato teatro dei burattini. Attaccai un palloncino ad ogni marionetta e constatai che, in effetti, volavano. Siccome ero avventurosa sì ma non scriteriata, ragionai che io pesavo di più di un burattino e per prudenza di palloncini me ne legai alla schiena cinque; per ulteriore protezione, indossai il mio casco da sci – era bianco con davanti una scritta rossa che diceva: “GO”. Infine, per scongiurare definitivamente che ci fossero residui di forza di gravità che potessero farmi sfracellare al suolo, salii sul letto a castello che dividevo con una mia sorella. Poi aprii la finestra e… in quel momento entrarono urlando mia madre e mia sorella grande. E sono ancora qui che posso raccontare questa storia.
D’accordo, facciamo un passo indietro: che cosa leggevi da bambina?
Le fiabe italiane di Calvino sono state il libro più importante della mia infanzia, le so praticamente a memoria. La mia vecchia edizione dei Millenni casca a pezzi, non è più bianca ma marrone, però sta ancora lì, sul mio comodino. Il soggetto di Fantaghirò lo trassi – molto liberamente – da una fiaba di Calvino. E poi le serie di libri per ragazzi british che più british non si può, quelli di Enid Blyton soprattutto. Parlavano di un mondo del tutto sconosciuto a me che abitavo a Roma (i collegi unisex inglesi) in cui ragazzine pubescenti se ne facevano a vicenda di tutti i colori. Li adoravo, per me era un’ambientazione più esotica dell’Amazzonia.
Ero una lettrice che definire vorace è poco. La bibliotecaria della mia scuola non ci credeva che io leggessi tutti i libri che prendevo in prestito e una volta rifiutò di darmene di nuovi, sosteneva che la prendevo in giro. Ma alla fine la convinsi che li leggevo davvero. Un altro libro che ho molto amato: The annotated Alice, i due libri di Carroll con le note a margine di Martin Gardner, il divulgatore matematico che tenne per anni una popolarissima rubrica di giochi logici e matematici sullo Scientific American. Univa il mio amore per la letteratura con quello per la matematica.
Come sono cambiate le tue letture nel tempo?
Fino ai 20, 24 anni ho letto soprattutto letteratura, poi da quando ho cominciato a viaggiare
Quali sono i tuoi dèi letterari?
Quanti ne posso dire? Sono talmente tanti! Va be’, li butto là alla rinfusa: Conrad, Yourcenar, Morante, Dickens, Chechov, Tolstoi, Stendhal, Shakespeare, Joseph Roth, Janet Frame. Il primo volume dell’Uomo senza qualità di Musil, i Buddenbrock di Thomas Mann. Viventi: Alice Munro, Ian McEwan, Nadine Gordimer e Philip Roth. E poi, in un spazio a sé e oltre ogni cosa, Emily Dickinson.
Chi preferisci fra gli scrittori italiani contemporanei?
Ti piace rileggere? E rileggendo sei mai stata delusa?
I libri di Alice Munro sono per me l’abiccì della scrittura, sono ogni volta stupefatta dalla sua maestria – nella costruzione narrativa, nell’economia e forza del linguaggio, nella profondità di conoscenza dell’animo umano - e li rileggo spesso. Non mi hanno mai deluso. Ho riletto Guerra e Pace mentre scrivevo Eva dorme per immergermi nel flusso di una grandissima narrazione. Questa cosa non la dicevo in giro, mi sembrava facilmente interpretabile come assurda presunzione, finché un giorno ho sentito un’amica scrittrice molto stimata dire che lei, mentre scriveva il suo romanzo, aveva tenuto a modello l’Odissea. E ho capito che potevo dirlo.
Che cosa ti ha insegnato Don Matteo?
A tratteggiare tutti i personaggi, anche quelli minori, con pennellate magari piccole ma specifiche ed inconfondibili. A scrivere anche una puntata di televisione nazional-popolare con la cura e l’attenzione di una pagina di letteratura. A rendere conto ad occhi esterni (gli editor) del mio lavoro ed ascoltare critiche, elogi e suggerimenti senza mai prenderla personalmente ma anche senza rinunciare a difendere ciò che mi pareva essenziale. I tempi della comicità.
Sceneggiatrice per anni e poi all’improvviso un romanzo…
Diciamo che la cosa strana semmai è stata fare, prima, la sceneggiatrice. In famiglia tutti si aspettavano che io diventassi scrittrice fin da quand’ero bambina. Mia madre dice che ho imparato a scrivere e parlare quasi insieme. E’ un’esagerazione ovviamente, però è vero che ho sempre scritto storie, racconti, poesiole. A sette anni feci un giornaletto illustrato, ogni articolo aveva il suo disegno, c’era la lo sport, la moda, la cronaca nera e quella rosa. Una cosa molto carina che però quando dico come l’avevo chiamato la gente, se non sa della mia passione per il volo, mi guarda strano poi scoppia a ridere imbarazzata. Non so se dirtelo. E’ sinonimo di volatile…
Ok…
Ho scritto pacchi e pacchi di racconti di viaggio, in inglese perché erano anni in cui l’italiano non lo parlavo quasi mai. Sono tutti lì, nel cassetto. Sempre la mamma dice che dovrei pubblicarli ma secondo me il cassetto è il posto giusto per loro.
Comunque io, chissà perché, dichiaravo a tutti che non avrei mai scritto un romanzo prima dei 40 anni; così è andata, ma non chiedermi perché.
Il tuo romanzo ha il pregio di essere una narrazione corale in cui la “piccola storia” dei protagonisti incontra la “grande storia”. E ha anche il merito di far luce sulle vicende dell’Alto Adige delle quali gli italiani sanno poco e niente: quando si arriva da quelle parti si resta spaesati perché tutti parlano tedesco e non si capisce perché. Sembra quasi una prepotenza e invece lì gli italiani hanno fatto la parte dei cow boy e i sudtirolesi quella degli indiani…
La maggior parte dei lettori italiani dopo che ha letto Eva dorme mi dice sempre questa frase: “non ne sapevo niente”. E questo anche se, magari, va in vacanza da una vita in Val Gardena o Val Badia. Noi italiani in generale non siamo ferratissimi in quelle pagine della nostra storia dove le vittime non siamo stati noi. Vedi l’avventura africana e la stupefacente mancanza di presa di responsabilità collettiva per quello che è successo a quei paesi dopo la decolonizzazione. Per tornare a Eva dorme, anche la difficile, complessa storia di questo lembo di terra “verticale”, appunto, è stata totalmente rimossa dalla nostra coscienza collettiva. Il mio romanzo l’ho scritto – anche – per dare il mio piccolissimo contributo ad una narrazione di chi siamo come collettività che sia inclusiva, e non esclusiva, della realtà storica. Sulla rimozione non si costruisce nessuna identità reale, condivisa, che valorizzi le differenze come ricchezza e che non le veda sempre e solo come occasione di campanilismi incrociati.
Lo scrittore rumeno Cioran, che ha cambiato lingua a 37 anni, descrive la sua esperienza come: “un martirio, ma un martirio fecondo” e raccomanda “a chiunque attraversi una crisi di depressione di andare alla conquista di un idioma straniero”. “Senza il mio accanimento a conquistare il francese” scrive: “mi sarei forse suicidato. Una lingua è un continente, un universo e chi se ne appropria è un conquistatore”.
Allora, quali sono le tue lingue e quali conquiste hanno reso possibili?
Da ragazza avevo l’ambizione di imparare tutte le lingue del mondo, almeno le principali. Non è andata affatto così, e le lingue che so sono tutte di un ceppo solo, quello che un tempo si definiva indoeuropeo. Mi piacerebbe prima di morire studiare almeno un po’ il cinese. E l’arabo. E il swahili. E l’amarico. Vabbè…
Allora: sono bilingue italiano-inglese, poi so bene il francese, abbastanza bene lo spagnolo e il tedesco, posso leggere un articolo di giornale in olandese ma non seguire una conversazione, del resto gli olandesi stessi definiscono la loro lingua “una malattia della gola”. Viaggiando ho imparato tante parole in tantissime lingue, ma non usandole non ricordo più molto. “Grazie” credo di saperlo dire in una ventina di lingue – è sicuramente la parola più importante che ci sia, quando si viaggia! Ho il cruccio di non aver mai imparato bene nessuna lingua del subcontinente indiano, ma lì l’inglese è talmente comodo che si diventa pigri. La lingua non-europea che parlavo meglio era il mongolo: dopo cinque mesi in Mongolia potevo conversare senza problemi e poi è una lingua molto facile, senza quasi grammatica. Purtroppo ora non ricordo altro che poche parole, e ho perso il dizionario che avevo in viaggio. Chissà, magari un giorno me lo ricomprerò. Comunque, in generale, comunicare per me non è mai stato un problema. Ovunque vado, anche in posti dove non sono mai stata e di cui ignoro la lingua, tocca sempre a me fare da interprete.
In casa nostra poi sembra di essere a Babele: parliamo italiano, tedesco, dialetto pusterese, inglese, a volte francese con la mia figlia piccola che si è scoperta francophile. Per far ridere i miei figli a volte loro mi danno una coppia di lingue e io devo parlare in una con l’accento dell’altra. La coppia più gettonata è l’inglese con accento tedesco, alla Dr. Strangelove per intenderci.
Quali tic, rituali e scaramanzie hai quando scrivi?
Nessuno. Scrivo quando ho tempo, dove posso.
Perché sei favorevole a Facebook?
Perché ho un sacco di FB-amici intelligenti e simpatici da cui posso imparare molte cose ed acquistare nuovi punti di vista ben più velocemente di quanto potrei fare ragionandoci da sola, o con solo un’altra persona. Perché le nuove rivoluzioni stanno tutte nascendo dai social network. Perchè secondo me non abbiamo ancora neanche lontanamente cominciato a immaginare dove ci porterà il concetto di ‘condivisione’.
Ora ti faccio una domanda che in genere fa venire l’orticaria. Qual è, secondo te, il rapporto fra la letteratura e la vita? Milena Agus ha sostenuto che se uno scrive è perché nella vita non ha trovato trippa per gatti. Tu, la trippa per gatti, l’hai trovata?
Davvero dice così? A me semmai sembra di avere, sia dentro di me che intorno a me, talmente tanta trippa e talmente tanti gatti, che per forza devo raccontarne almeno un po’.