Il fattore “P”

Creato il 13 agosto 2010 da Malbanese74
Dove la “P” sta per pigrizia intellettuale, direttamente proporzionale alla diffusione del fattore “G”, il fattore “Google”. Se ne discute su vari blog da tempo, ma adesso che anche un giornale di elevato spessore e caratura se ne è occupato, speriamo che l’attenzione continui a salire su su fino alle sfere istituzionali. E già, perché l’articolo in questione ha un titolo cristallino “G-dipendenti e copioni. Bocciati i giovani sul web” e prende le mosse da uno studio (Trust Online: Young Adults' Evaluation of Web Content) di alcuni ricercatori della Northwestern University di Chicago, pubblicato sulla rivista “International Journal of Communication” (Vol 4 2010). La ricerca ha interessato circa un migliaio di giovani americani tra i 18 e i 20 anni e ha messo in luce alcune “inquietanti” tendenze (così vengono definite dall’articolista) che, in breve, possono essere così riassunte: la rete è lo strumento maggiormente utilizzato per le ricerche; l’attendibilità di quanto trovato e delle fonti non è una questione avvertita come necessaria; i motori di ricerca sono assurti a dispensatori di verità assolute e indiscutibili; scarsa conoscenza dei principi regolatori degli algoritmi di ricerca (PageRank di Google, per esempio, che indicizza i siti in base ai collegamenti con altri indirizzi IP); affidamento immediato sul primo risultato, in ordine di apparizione, sulla pagina del motore di ricerca utilizzato; scarsa capacità di discernere tra pubblicità e link in primo piano; indifferenza verso gli autori dei materiali reperiti online; maglie larghe nei confronti del “cut & paste” selvaggio, effettuato con disinvoltura. Da quanto appena scritto, si capisce come siamo di fronte a un bel “fritto misto”, un insieme delle abitudini più “scorrette” da un punto di vista di etica online o netiquette della ricerca. Partendo dal problema del “copia e incolla”, non mi soffermerei solo sulla “seria violazione delle regole scolastiche”, come scritto nell’articolo. Anzi, direi, che a cascata tale questione si porta dietro le altre e il titolo del post. Andare alla ricerca delle fonti, capire se quanto trovato è di qualità oppure no, verificare, approfondire non deve essere concepita come una pratica da “secchioni” (come per es. non fermarsi mai alla prima definizione o traduzione reperita su un vocabolario italiano o di lingua straniera). Dovrebbe essere la normale prassi che motiva e stimola la curiosità intellettuale. Aspetto questo che ha fatto dell’homo sapiens sapiens ciò che è oggi (con tutte le inevitabili eccezioni, ovviamente). Nell’articolo è scritto che “in tanti si affidano acriticamente ai grandi marchi e a rotte di navigazione già percorse, rinunciando al brivido della scoperta a vantaggio della pigrizia mentale” (è chiaro come lo spunto per il titolo del post sia venuto da quest’ultima espressione). Come non essere d’accordo. Su vari blog, compreso questo, si è spesso dibattuto della necessità di un uso consapevole della tecnologia e dei mezzi offerti dalla rete. Il problema è sempre lì: i nativi digitali hanno fra le mani strumenti preziosi, ma di cui conoscono o hanno imparato a conoscere solo una piccolissima parte. Gli immigrati digitali se da un lato hanno sempre il fiato grosso per stare dietro al vorticoso correre della net generation, dall’altro hanno il background culturale per vedere oltre la tecnologia e ravvisare le potenzialità degli artefatti tecnologici che repentinamente si trasformano attorno a noi. La pigrizia però non è solo dei nativi, ma anche degli immigrati. Troppo scomodo provare, sperimentare e rimettersi in discussione. Speriamo solo che l’articolo di Repubblica non diventi la solita arma a doppio taglio, per i pigri, per affettare e impacchettare il futuro. Un’ultima chiosa sul concetto di diritti d’autore. In un altro post ho argomentato sulla necessità della “conoscenza come bene comune” e mi sento di affermare che, sulla questione dei “diritti d’autore” o del “copyright”, non condivido posizioni catastrofiche, censorie o millenariste. Michael Wesch, nel suo video “The machine is us” ci suggerisce di rivedere e ripensare alcuni concetti quali “copyright, identità, etica, estetica, retorica, governo, privacy, commercio, amore, famiglia, noi stessi”. Sono sempre più d’accordo con lui e continuerò a supportare e difendere il motto “libera conoscenza in libero mondo” perché, come dicono Charlotte Hess e Elinor Ostrom nell’introduzione al loro libro, “la conoscenza genera vantaggi per tutti nella misura in cui l’accesso a tale patrimonio sia aperto a tutti”. Dimenticavo. L’indagine della Northwestern University si riferisce a giovani americani. Domanda: ma siamo sicuri che, in Italia, le cose stiano diversamente? Da quello che vedo e sento una risposta, forse, l’ho già in mente.

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