fonte foto mondorosashokking.net
Intervento di Houria Bouteldja, portavoce degli Indigènes de la République, al 4° congresso sul Femminismo Islamico (traduzione di Luna De Bartolo)
(Madrid 2010)
Vorrei innanzitutto ringraziare la Junta Islamica Catalana per aver organizzato questo convegno: una vera boccata d’ossigeno in un’Europa ripiegata su sé stessa, scossa da dibattiti xenofobi e che rigetta sempre più l’alterità. Spero che una simile iniziativa potrà avere luogo in Francia.
Prima di entrare nel vivo dell’argomento, vorrei presentarmi, poiché credo che un discorso debba sempre essere situato in un contesto.
Vivo in Francia, sono figlia di immigrati algerini. Mio padre era un operaio e mia madre una casalinga. Non intervengo in quanto sociologa, ricercatrice o teologa. In altre parole, non sono un’esperta. Sono una militante e mi esprimo a partire da un’esperienza militante, politica e, aggiungerei, dalla mia sensibilità. Faccio tutte queste precisazioni perché vorrei che il mio ragionamento fosse quanto più possibile trasparente. In tutta sincerità, fino ad oggi non avevo mai davvero riflettuto davvero sul quadro di problematiche posto dal femminismo islamico. Allora perché partecipare a questo convegno? Quando sono stata invitata, ho detto chiaramente che non avevo nessuna competenza per parlare di femminismo islamico ma che potevo intervenire sulla nozione di femminismo postcoloniale, una riflessione che a mio avviso dovrebbe essere integrata a quella, generale, sul femminismo islamico. Ed è per questo che vi propongo di considerare alcune questioni che potrebbero risultare utili alla nostra riflessione collettiva.
- Il femminismo è universale?
- Qual è il rapporto tra i femminismi bianchi/occidentali e i femminismi del terzo mondo, tra i quali figurano gli islamici?
- Il femminismo è compatibile con l’islam?
- Se sì, come legittimarlo? Quali possono essere le sue priorità?
Primo quesito: il femminismo è universale?
Secondo me, questa è la domanda fondamentale da porsi nel momento in cui si vuole seguire una metodologia postcoloniale e decolonizzare il femminismo. Questa domanda è essenziale, non tanto per la sua risposta ma perché ci obbliga, noi che viviamo in Occidente, a prendere le precauzioni necessarie quando siamo confrontati a società Altre.
Prendiamo l’esempio delle cosiddette società occidentali, che hanno assistito all’emergere dei movimenti femministi e da questi sono influenzate. Le donne che hanno lottato contro il patriarcato e per una pari dignità tra uomini e donne hanno ottenuto dei diritti e fatto progredire la condizione delle donne, delle quali io ne sono una beneficiaria. Paragoniamo la situazione di queste donne, quindi noi, con quelle delle società cosiddette «primitive», ad esempio l’Amazzonia. Esistono ancora, qua e là, delle società risparmiate dall’influenza occidentale. Ne approfitto per aprire una parentesi e precisare che non considero nessuna società come primitiva. Penso esistano diversi spazi/tempi sul nostro pianeta, tempistiche differenti, che nessuna civiltà sia in vantaggio o in ritardo rispetto alle altre; non utilizzo il metro del progresso e nemmeno considero quest’ultimo come uno scopo in sé o come un orizzonte politico. O, per dirla in altre parole, non considero necessariamente il progresso come un’evoluzione, ma talvolta, spesso, come regressione. E credo che la questione postcoloniale si applichi ugualmente alla nostra percezione del tempo. Per tornare al nostro argomento, se prendiamo il criterio del semplice «benessere», chi in questa sala può affermare che le donne di queste società (che non conoscono il concetto di femminismo come lo intendiamo noi) siano più infelici delle donne europee, le quali non solo hanno partecipato alle lotte ma hanno fatto sì che anche le loro società beneficiassero di queste inestimabili conquiste? Per quel che mi riguarda, sono assolutamente incapace di rispondere a questa domanda e beato chi potrà farlo. Ma, ancora una volta, la risposta non è importante. È la domanda che conta! Perché ci obbliga ad essere più umili e imbriglia le nostre tendenze imperialiste e i nostri riflessi d’ingerenza. Ci costringe a non considerare le nostre norme come universali e a non cercare di far coincidere a tutti i costi la nostra realtà con quella degli altri. In parole povere, ci obbliga a situarci nella nostra particolarità.
Avendo espresso chiaramente questo concetto, mi sento più a mio agio nell’affrontare la seconda questione, relativa ai rapporti tra i femminismi occidentali e quelli del terzo mondo. Rapporti necessariamente complessi; ma una delle loro dimensioni è la dominazione nord/sud. Un approccio postcoloniale deve rimettere in discussione questo rapporto e tentare di rovesciarlo. Un esempio:
Nel 2007, alcune donne appartenenti al Mouvement des Indigènes de la République hanno partecipato alla marcia annuale dell’8 marzo consacrata alla lotta delle donne. In questo periodo, cominciava la campagna statunitense contro l’Iran. Abbiamo deciso di sfilare dietro uno striscione su cui era scritto: «Nessun femminismo senza anti-imperialismo». Indossavamo tutte delle kefiah palestinesi e diffondevamo un volantino solidale con tre donne irachene, resistenti, fatte prigioniere dagli americani. Al nostro arrivo, le organizzatrici del corteo ufficiale hanno iniziato a scandire degli slogan di solidarietà con le donne iraniane. Questi slogan, in un contesto di offensiva ideologica contro l’Iran, ci hanno profondamente scioccato. Perché le iraniane, le algerine, e non le palestinesi o le irachene? Perché queste scelte selettive? Per contrastare questi slogan, abbiamo deciso di esprimere la nostra solidarietà non verso le donne del terzo mondo ma bensì verso le occidentali. Così, abbiamo iniziato a gridare:
Solidarietà con le svedesi!
Solidarietà con le italiane!
Solidarietà con le tedesche!
Solidarietà con le inglesi!
Solidarietà con le francesi!
Solidarietà con le americane!
Questo voleva significare: perché solo voi, donne bianche, avete il privilegio della solidarietà? Anche voi venite picchiate, stuprate, anche voi subite le violenze maschili, anche voi siete sottopagate, disprezzate, anche i vostri corpi sono strumentalizzati…
Posso assicurarvi che ci hanno guardato come se fossimo delle extraterrestri. Ciò che dicevamo pareva loro surreale, inconcepibile. Non è stato tanto il ricordare la loro condizione di donne in occidente a turbarle. Era piuttosto il fatto che delle donne africane e arabo-musulmane osassero rovesciare simbolicamente un rapporto di dominazione e si ergessero a madrine. In altre parole, con questa piroetta retorica stavamo dimostrando loro che avevano, di fatto, uno status superiore al nostro. Ci siamo molto divertite di fronte alle loro facce spaesate!
Un altro esempio:
Un’amica mi raccontava, al suo ritorno da un viaggio di solidarietà in Palestina, di donne francesi che abbordavano delle palestinesi per chiedere loro se utilizzassero dei metodi contraccettivi per controllare le gravidanze. Secondo la mia amica, le palestinesi non comprendevano nemmeno che si potesse porre loro una domanda del genere poiché la questione demografica è estremamente importante in Palestina. La loro prospettiva è completamente diversa. Per molte donne palestinesi, fare dei bambini è un atto di resistenza di fronte alla pulizia etnica israeliana.
Ecco qui due esempi per illustrare la nostra condizione di donne razzializzate, comprenderne le problematiche e progettare un percorso per combattere il femminismo coloniale ed eurocentrico.
Continuando sulla scia di questo ragionamento, l’islam è compatibile col femminismo? Trovo che questa domanda sia una pura e semplice provocazione. Non la sopporto. Se ora la pongo, è perché mi metto nei panni di un giornalista francese che crede di fare una domanda pertinentissima. Per quel che mi riguarda, rifiuto di rispondere per principio. Da un lato, perché parte da una posizione arrogante. Il/la rappresentante di una civiltà X intima il/la rappresentante di una società Y di provare qualcosa. Y è così messa sul banco degli imputati e deve fornire le prove della sua «modernità», giustificarsi per piacere a X. E dall’altro lato, perché la risposta non è affatto semplice, sapendo come il mondo islamico non sia un monolite. Il dibattito può così allungarsi all’infinito ed è per l’appunto quello che succede quando si fa l’errore di tentare di rispondere. Io taglio corto facendo la domanda seguente: La Repubblica francese è compatibile col femminismo? Posso assicurarvi che la vittoria ideologica risiede nella risposta a questa domanda. In Francia, una donna ogni tre giorni muore di violenze coniugali. Stimiamo in 48.000 gli stupri ogni anno. Le donne sono sottopagate. Le pensioni delle donne sono ampiamente inferiori a quelle degli uomini. Il potere politico, economico, simbolico, resta principalmente nelle mani degli uomini. Certo, a partire dagli anni 60/70, gli uomini partecipano di più alle faccende domestiche: statisticamente, 3 minuti in più in 30 anni!! Quindi faccio nuovamente la mia domanda: c’è compatibilità tra la Repubblica francese e il femminismo? Saremmo tentati di rispondere: no! Infatti la risposta non è né sì né no. Sono le donne francesi ad aver liberato le donne francesi ed è grazie a loro se la Repubblica è meno machista di prima. Ed è la stessa cosa per ciò che riguarda i paesi arabo-musulmani, asiatici o africani. Né più né meno. Con tuttavia una sfida in più: consolidare, nella lotta delle donne, la dimensione postcoloniale e la critica della modernità e dell’eurocentrismo.
E come legittimare il femminismo islamico? Per quel che mi riguarda, si legittima a priori e non a posteriori. Non c’è un esame di femminismo da superare. Il semplice fatto che delle donne musulmane se ne approprino per rivendicare i loro diritti e la loro dignità basta per una piena riconoscenza. E conoscendo bene donne del Maghreb o immigrate, so perfettamente che la «donnasottomessa» non esiste. È stata inventata. Conosco delle donne dominate. Sottomesse, molte meno!
Desidero concludere su quelle che, secondo me, dovrebbero essere le priorità del femminismo postcoloniale. Avete tutti sentito parlare di Amina Wadud e del suo impegno nell’elaborazione di un femminismo islamico. Si è resa celebre il giorno in cui ha guidato la preghiera, ruolo che normalmente spetta agli uomini. In assoluto, fuori contesto, direi che potremmo pensare di trovarci di fronte a un atto rivoluzionario. Ora, nel contesto internazionale, in seguito alla rivoluzione iraniana e soprattutto dopo l’11 settembre (islamofobia, ingiunzione alla modernizzazione dell’islam…) è un messaggio ben più ambiguo quello che è stato diffuso attraverso questo atto. Rispondeva a una rivendicazione forte, a un’urgenza, a un’attesa fondamentale delle donne dell’Umma? O piuttosto ad un’attesa del mondo bianco? Permettetemi di propendere per la seconda ipotesi. Non perché non ci siano delle donne che trovino ingiusto il fatto che solo gli uomini possano dirigere la preghiera, ma perché le priorità e le urgenze delle donne sono altrove.
Che cosa vogliono le afgane, le irachene o le palestinesi? La pace, la fine della guerra e dell’occupazione, la ricostruzione delle loro infrastrutture, dei quadri legali che assicurino loro protezione e diritti, mangiare e bere a sazietà, nutrire ed educare i loro bambini in buone condizioni.
Che cosa vogliono le donne musulmane d’Europa e, più in generale, quelle provenienti dall’immigrazione, che vivono per la maggior parte in quartieri popolari? Un lavoro, un tetto, dei diritti che le proteggano tanto contro gli abusi dello Stato che contro le violenze maschili. Esigono il rispetto per la loro religione, per la loro cultura. Perché tutte queste rivendicazioni sono ignorate? Perché l’atto di dirigere la preghiera ha fatto il giro del pianeta quando cristianesimo e giudaismo non si sono mai distinti per la loro intransigente difesa dell’uguaglianza dei sessi? Io credo, per chiudere con quest’esempio, che l’atto di Amina Wadud è esattamente il contrario di ciò che pretende di essere. Nei fatti e indipendentemente dalla volontà propria di questa teologa, è per me un atto controproduttivo. Non potrà avere carattere femminista che quando l’islam sarà trattato in modo egalitario e quando la rivendicazione di guidare la preghiera verrà realmente dalle donne musulmane. È tempo di vedere le musulmane e i musulmani come sono, e non come desidereremmo che fossero.
Termino qui, sperando di aver tracciato qualche pista per un vero femminismo postcoloniale al servizio delle donne, di tutte le donne, nel momento in cui queste giudichino che lì si trovi la via che porta alla loro emancipazione.
Houria Bouteldja
Madrid, le 22 octobre 2010
Ringrazio Luna per la traduzione e la condivisione.