Il fico in Puglia: tra “paesaggi dimenticati” e nuovi ficheti

Da Antoniobruno5
Il fico in Puglia: tra “paesaggi dimenticati” e nuovi ficheti Piante o fichi secchi furono trasportati da antiche stirpi attraverso il bacino del Mediterraneo. Pochi altri alberi da frutto possono sopportare salsedine e arsura estiva. Veramente squisiti i suoi frutti (ne esistono diverse varietà), freschi o essiccati di Francesco Minonne
Il fico rappresenta, da sempre, una delle colture più importanti del panorama agricolo pugliese; tra le specie legnose che hanno retto l’economia agricola regionale si può dire che esso è, per importanza, al terzo posto dopo olivo e vite. La sua presenza è certamente antica; le immigrazioni di popoli orientali, già prima della dominazione romana, avvenute in questa terra e i rapporti commerciali con i luoghi d’origine di quei popoli possono aver permesso l’importazione di piante e, fra queste, anche di varietà differenti di fichi. Come afferma Ferdinando Vallese: “Quand’anche non avessero trasportato piante, i fichi secchi dovevano costituire senza dubbio una delle provviste più gradite e di più facile e lunga conservazione nei viaggi intrapresi dalle antiche stirpi che popolarono il bacino del Mediterraneo”. Per tutta la regione, quindi, questa pianta ha assunto, fino a pochi decenni fa, un valore enorme se si pensa alla possibilità di sostentamento che da questa coltura hanno tratto famiglie di braccianti, coloni e mezzadri; non avendo spesso possibilità di sfruttare colture ad elevato reddito, questa gente trovava nel fico una pianta di “salvataggio”, una coltura frugale, di rapida entrata in produzione di facile ed autonoma trasformazione dei frutti essiccati. Il radicale cambiamento dei mercati e dei consumi ed il conseguente crollo delle coltivazioni ha posto il fico, in pochi anni, tra i cosiddetti “frutti minori”; lo ha relegato ai margini dell’agricoltura produttiva, sottraendolo anche alle cure e attenzioni di cui un tempo godeva e confinandolo spesso ad un abbandono colturale e alimentare. Chi oggi attraversa il territorio pugliese può vedere solo ciò che rimane di un antico sistema colturale legato al fico, ma può scorgere ancora, prestando attenzione, i segni di un paesaggio rurale strettamente legato a questa specie; testimone di una coltura tradizionale ormai in abbandono lo troviamo consociato ad olivo, mandorlo ma anche a colture ortive, e ancora in sparuti ficheti lungo le zone costiere del basso e alto Salento, sulle Murge, nella Piana di Bari, nel vasto tavoliere foggiano. Nel Salento meridionale, oltre ai vetusti esemplari arborei ancora presenti qua e la nelle campagne d’ogni tipo, nei giardini e nelle residenze estive, negli orti periurbani e finanche nell’ambito urbano dei piccoli paesi, si individuano alcuni “paesaggi nascosti” del fico. Una vera e propria archeologia arborea e rupestre che contraddistingue paesaggi agrari a volte interclusi tra la strada litoranea e l’immensa fascia blu dell’orizzonte marino. Nella cornice costiera della Puglia meridionale, infatti, i minuscoli fazzoletti di terra che degradano terrazzati dalla litoranea al mare lasciano spazio e luce all’antico retaggio del fico, del fico d’india, del gelso moro, del carrubo e di pochi altri fruttiferi che possono sopportare salsedine e arsura estiva. Qui, infatti, l’immenso patrimonio olivicolo, nella bellezza monotona del suo paesaggio arboreo, trova i suoi rari punti di discontinuità aprendosi, di tanto in tanto, sopra i terrazzamenti ben recintati della costa. Stupendi muretti a secco disegnano il contorno di terre strappate alla roccia con fatica sovrumana. Sia la costa ionica che quella adriatica offrono in questo senso tutti i segni di un ambiente arcaico, dove il fico è ancora parte di un suo vecchio paesaggio sia pur frammentato dalle tante costruzioni e dal “nuovo verde” di discutibile ornamento. Proprio tra gli spazi lasciati vivi e immobili, tra le rocce bianche della scogliera, si ergono costruzioni rupestri che con il fico avevano molto da condividere. I furnieddhi, antichi forni di pietra a secco per la cottura dei fichi, le mantagnate, muraglie di pietre a secco costruite per proteggere le piante dal vento salso lungo la costa o dai venti freddi nell’entroterra, spase, littere, cumuli di pietrame minuto utilizzato per l’esseccazione su erbe secche o graticci di canne. All’interno delle piccole parcelle di terreno troviamo ficazzani, culummi bianchi e neri, maranciana e soprattutto rizzeddha, resistente alle condizione estreme della costa e qui padrona assoluta tra le varietà da essiccare; più ancora dell’onnipresente dottato che da qui rifugge in cerca di terreni migliori nell’entroterra pugliese. Lungo le marine ostili e calde di queste coste si svolgeva il profumato viaggio dei fichi e delle carrube; i fichi buoni raccolti ed essicati in agosto lasciavano il posto a quelli caduti e stramaturi che insieme alle cornule andavano allu mbarcu; si imbarcavano cioè per le industrie della distillazione presenti, peraltro, anche in importanti centri leccesi come San Cesario di Lecce. Oggi, in tutte le province, la coltivazione del fico è quasi sempre associata ad altri fruttiferi o colture erbacee ma, da qualche anno, sono stati realizzati nuovi impianti ed altri sono in fase di realizzazione; un ritrovato interesse ha spinto alcuni imprenditori agricoli ad investimenti coraggiosi per la produzione di fico fresco e per la trasformazione in essiccato e composte. Anche il settore agrituristico ha dato, negli ultimi anni, un contributo sostanziale sia alla conservazione sia alla promozione di questo patrimonio, con l’impianto di piccoli ficheti per il consumo interno alla propria ristorazione. Progetti scientifici, iniziative di promozione, l’azione dei Parchi Naturali pugliesi fanno una parte importante in questo rilancio; all’interno di un grande progetto di agricoltura sostenibile e creativa il fico trova il suo spazio ideale per esistere e continuare a fare la sua parte sulle tavole di questa terra. Per approfondimenti: Fichi di Puglia. Storia, paesaggi, cucina, biodiversità e conservazione del fico in Puglia. A cura di Francesco Minonne, Paolo Belloni, Vincenzo De Leonardis. Coop. Ulisside Editore. Castiglione d’Otranto, 201  

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