Questo ricordo, lo vorrei raccontare…
Ma così, si è già spento…non resta quasi niente
Perché lontano, ai miei primi verdi anni sta
Kavafis
Il vecchio medico di famiglia, quello che era convinto che quella ciambella di lipidi era tutta altezza, non fu più consultato. Avevano ragione le vecchie beghine che alla Madrice, prima e dopo ogni funzione, gli artigliavano la faccia. Beddu sciacquatunazzu! Gli dicevano lasciandogli la faccia in fiamme. La maestra che non perdeva occasione di un bel dettato a sorpresa, quel giorno sfogliò il suo libro rosso. Dopo la storia edificante dell’origine dei crisantemi e del petto scarlatto del pettirosso, narrò la storia dell’ulivo. Ninuzzo, questo il nome dell’aspirante Batman di Bagheria, ne restò appassionato. Come di tutte le leggende che la maestra Perrone usava per i dettati. Il sacerdote Caifa aveva mandato i suoi sgherri a cercare legno per la croce su cui inchiodare Gesù. Gli ulivi, a quei tempi dritti e lisci come i pioppi, si rifiutarono, iniziarono a piegarsi, contorcersi. Divennero inutili allo scopo. Leggende edificanti che poi Ninuzzo, anni e anni dopo, avrebbe sempre ricordato, con la stessa magia che riservava alle metamorfosi di Orazio nelle infinite ore di letteratura latina. Suo padre, vigile urbano, lo vedeva triste, incupito. Di solito bastava una pizzetta a tirarlo su. Quella mattina no, Ninuzzo avrebbe voluto fare come gli ulivi del dettato per sfuggire agli occhi di suo padre. Lo vedeva come un gigante nella sua divisa blu. Un gigante magro. E suo padre capì.
Quella sera stessa iniziarono le passeggiate. Da palazzo Butera giù giù sino al mare di Aspra. Le gambe di Ninuzzo non tenevano il ritmo ma ripensava a ogni crampo alle origini di Batman. Doveva insistere. E lo fece. Non importava più il costume di Batman o le tentazioni del pizzicagnolo del mercatino del mercoledì che sventolava larghe scaglie di provolone. Lui era il figlio del Maresciallo. Suo padre era il suo nuovo eroe, un eroe vero, non stampato su albi da 32 pagine venduti all’edicola di Pippo. Era stato suo padre a insegnargli ad andare sulla bici senza rotelle, se lo ricordava ancora. Era stato suo padre a tentare di insegnargli a prendere le lucertole con un filo d’erba nella campagna dello zio Nunzio. Sempre lui a spiegargli che il cacciavite americano è quello a croce. Sempre suo padre gli aveva fatto tenere gli attrezzi del nonno in mano, lui gli stringeva forte forte la mano quando era rimasto terrorizzato dal lupo mannaro della Storia Infinita.
Un mito, l’incorruttibile maresciallo. Ora, vent’anni dopo non ce la faceva ad andare a trovarlo. Gli faceva male pensarlo carne morta dietro quella lapide. Voleva ricordarlo vivo e gagliardo come quando gli aveva insegnato a tirar sassi con la fionda mentre sua sorella era a lezione di pianoforte dal maestro Oliveri. A prendere lucertole con il cappio fatto con un filo d’erba non c’era mai riuscito. Avrebbe avuto tanto ancora da dirgli. Ripensava a quando gli aveva tolto le rotelle dalla bici. Era felice, l’aveva reso orgoglioso. Uno dei ricordi più belli. Il suo gigante che gli spiegava il principio della fisica che c’era dietro il miracolo dell’equilibrio e lui che si godeva solo la magia del suo eroe che lo spronava a non aver paura.
Forse non gliel’aveva mai detto abbastanza quanto l’amava, ma si capivano senza troppe parole. Non erano mai servite con il suo gigante d’un metro e sessantaquattro. Da amare e imitare. La nonna una volta rischiò di restarci secca a forza di ridere quando Ninuzzo imitò il Maresciallo che si metteva il suo cinto dell’ernia. Quella se l’era portata dall’altra parte. Gli avevano fatto una dozzina d’operazioni inutili ma l’ernia se l’era portata via con sé. Tenuta sempre su con quella stessa cinta che per lui era diventata più preziosa della bat-cintura.
Già pubblicato su L’Approfondimento di Bagheria n.99, aprile-maggio 2012