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I film sui rapporti tra israeliani e palestinesi rappresentano ormai un filone piuttosto consolidato della cinematografia internazionale. Del resto, in una situazione che ormai da oltre sessant’anni non accenna a trovare una soluzione, anzi fa registrare periodicamente recrudescenze e inasprimenti, dubito che si potrà smettere di parlarne ancora per molti anni a venire. Anche se vorrei davvero sbagliarmi.
Ne Il figlio dell’altra la vicenda raccontata è originale e ricca di spunti, per quanto in parte paradossale. Joseph (Jules Sitruk) e Yassin (Mehdi Dehbi) sono due ragazzi quasi diciottenni. Il primo è figlio di una famiglia ebrea, i Silberg, che vivono in una bella casa di Tel Aviv. Joseph vuole fare il musicista e intanto trascorre le giornate con i suoi amici sulla spiaggia di Tel Aviv pensando al suo futuro.
Yassin è il figlio di una famiglia palestinese che vive in Cisgiordania, al di là del lungo e orribile muro che delimita questo territorio. Yassin studia a Parigi e vuole diventare medico, ha un fratello più grande e una sorella più piccola e la sua famiglia vive nel ricordo di un altro figlio morto in non si sa quali circostanze.
Ma le cose non stanno come sembrano. Nella giornata in cui i due bambini sono stati partoriti in un ospedale di Haifa, a causa di un bombardamento i bambini sono stati allontanati dalle madri per essere messi in salvo e quando sono stati restituiti sono stati scambiati per errore.
Il tutto viene fuori quando Joseph fa la visita per la leva militare e il suo gruppo sanguigno risulta incompatibile con quello dei genitori.
Da lì iniziano le rivelazioni e poi i contatti tra queste due famiglie che non potrebbero essere più diverse: il padre di Joseph (Pascal Elbé) è un militare, un colonnello dell’aviazione, rigido e inflessibile, completamente interno al punto di vista israeliano sulla questione delle terre. Il padre di Yassin (Khalifa Natour) è un ingegnere ora costretto a fare il meccanico perché non ha l’opportunità di esercitare la sua professione. Il padre e il fratello di Yassin nutrono forti sentimenti anti israeliani, in quanto considerano questi ultimi gli invasori delle loro terre, coloro che le hanno occupate illegalmente e con la forza.
La religione - che pure in entrambe le famiglie non sembra assumere una centralità assoluta, bensì sembra rappresentare solo una componente culturale della tradizione - alimenta però le difficoltà della situazione, visto che Joseph, educato secondo i dettami della religione ebraica, risulta non ebreo e dunque automaticamente escluso dalla religione a cui ha ritenuto di appartenere per diciotto anni, mentre Yassin è ebreo a tutti gli effetti, in quanto figlio di madre ebrea, pur essendo stato allevato come arabo.
Ma di fronte ad una situazione come questa la questione politica e religiosa entra pesantemente in conflitto con i sentimenti e i legami di sangue. Non è un caso che le due donne di famiglia, le madri (le bravissime Emmanuelle Devos e Areen Omari) sono quelle che fin dal principio affrontano con forza e apertura questa situazione così difficile e sembrano mettere in secondo piano qualunque altra cosa rispetto alla possibilità di instaurare un legame con il proprio figlio naturale e consentire a questi figli la libertà della scelta.
I due ragazzi - che non potrebbero essere più diversi fisicamente e anche caratterialmente - sono però accomunati da un’età della vita in cui il dato più importante è lo sguardo sul proprio futuro, la costruzione di un proprio percorso. Joseph e Yassin, pur turbati profondamente dalla vicenda e dalle conseguenze che essa potrà avere sugli aspetti pratici della loro vita, non sembrano preoccupati dal fatto di essersi ritrovati improvvisamente nello schieramento opposto di una guerra, in quanto i loro sogni e i loro obiettivi sono in qualche modo indipendenti da qualunque contingenza.
È il mondo circostante a caricare questa situazione anomala di una venatura razziale, religiosa e umana tutta basata sulla contrapposizione e sull’inconciliabilità. Ma Yassin può tranquillamente vendere i gelati sulla spiaggia di Tel Aviv come fa Joseph, e Joseph può cantare una canzone alla tavola della sua nuova famiglia come avrebbe fatto a casa sua. Il punto per ciascuno di loro è non sprecare la vita che si ha davanti.
Lo sguardo finale che dall’alto dello scheletro di un edificio non finito si estende su una terra in cui si alternano città ad alta densità urbana e colline brulle attraversate dai greggi di pecore, l’apertura infinita del mare e la chiusura castrante di un muro, le lussuose case con giardino e le baracche di lamiera, le strade di terra e i corsi pieni di locali e di vetrine addobbate, ci dice che, attraverso gli occhi di Joseph e Yassin, occhi giovani e pieni di speranze, forse si può ancora provare a guardare oltre e al di là di tutto questo, sentirsi parte di un mondo più grande e portatore di nuove prospettive.
Almeno per la durata di un film vogliamo provare a crederci grazie alla brava regista Lorraine Lévy.
Voto: 4/5
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