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Odissea di una frontiera che si è trasfigurata nel tempo, come trasfigurata si è la definizione ultima di quell’America, gli Stati Uniti, che, come la parte per il tutto, è divenuta luogo di immaginari che si sono trasformati nell’immaginario collettivo di un occidente che prosegue la sua marcia sulle rovine di imperi che seminano, a loro volta, altri imperi ancora, i quali, abbandonata loro malgrado la forza della conquista territoriale, sono divenuti simulacri governati dalla forza eterna del potere della ricchezza e del danaro.
Territorio estremo di definizioni e di vicende che si intrecciano e si inseguono, luogo di quel racconto eterno che si converte in vettore del resoconto di un’umanità contemporanea fotografata nella sua visione di ferocia forse atavica, quel Texas, che è qui protagonista con i suoi deserti di pascolo e di petrolio, è il fine ultimo di quella conquista che ha come oggetto ricchezze e schiavi e che da sempre rappresenta il bottino anelato da ogni banda di predoni che sia riuscita con audacia a trasformare se stessa in stato, in regno, in impero capace di porsi all’attenzione della storia dell’umanità.
Posizioni massime di protagonisti che sono al contempo artefici e merce di scambio di quella dichiarazione di potere che governa il mondo, si alternano a eventi in cui l’anima si fa trafiggere dalla storia politica ed economica e quella stessa storia diventa carnefice di anime, di quelle anime che hanno il potere di essere anche vittime forse di se stesse.
L'apparire prodromico di un imperialismo che diverrà mondiale è raccontato anche attraverso le note e i rimandi a citazioni letterarie, televisive e filmiche, ricordando piccoli eventi che sono poi anche confluiti nella cultura pop, racconto e condivisione totalizzante della narrazione bicentenaria di una nazione che è diventata essa stessa icona pop nel bene e nel male e che non può non ricordarci altre testimonianze della sua autoanalisi collettiva come quel magistrale affresco tolstoiano che è stato Nashville di Altman o Soldato blu o Un uomo, oggi, con quel Paul Newman intellettuale alla deriva che nei Settanta diventa commentatore di una radio di estrema destra, nel profondo sud ancora una volta ammantato di reminiscenze confederate e razziste alla George Wallace.
Echi di complotti ellroiani (quel Lyndon B. Johnson in cerca di elezione al Senato, già ombra e fantasma di cospirazioni alla Cointelpro anti-kennedyane) si fondono con le epopee di una prateria di morte, sofferenza e forse di resurrezione, aperta a quella contemporaneità di deserti acidi che saranno nel divenire letterario il tragico palcoscenico di morti estreme bolaňiane, a loro volta interpreti di mutazioni continentali dove all’anglos crudele si sostiturà un mix di potere texmex forse ancor più sanguinario.
Una frase varrà a definire questo grande dipinto che appare come creato da un Bruegel o da un Bosch ammantati nella bandiera della croce del sud: Ricordava un sermone in cui il pastore aveva nominato alcune persone interessanti che potevi incontrare in paradiso: Martin Luther King (per i neri), il Mahatma Gandhi, Ronald Reagan.
Un libro.
Il figlio, di Philipp Meyer (Einaudi).
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