Il figlio di saul
Creato il 25 gennaio 2016 da Veripaccheri
Il figlio di Saul
di Laszlo Nemes
con Geza Rohrig, Urs Rechn, Levente Mornar
Ungheria, 2015
genere, drammatico
durata, 107'
Possiamo affermare senza
torto alcuno che tra i film dedicati alla Shoah, alcuni dei quali sono già arrivati nelle nostre sale o stanno per farlo nel
giro delle prossime settimane, quello di Laszlo Nemes - giustamente premiato
dalla giuria dell’ultimo festival di Cannes - appartenga di diritto alla categoria delle opere memorabili.
A farcelo dire non è tanto il tema tratto, così importate da costituire di per
sé il valore aggiunto di qualsivoglia forma d’arte, quanto piuttosto le
caratteristiche intrinseche del lungometraggio del regista ungherese. Che, a
partire dalla forma cinematografica imposta al suo film, riesce a scavare un
solco con quello che è venuto prima. Con un rigore pari a quello del protagonista – un membro del sonderkommando ossessionato dall’idea di dare sepoltura al cadavere
del bambino che crede essere suo figlio -
Nemes sceglie infatti di aderire alla dimensione fisica del personaggio,
perseguendo il suo scopo anche a costo di sacrificare i vantaggi offertegli
dalla moderna tecnologia.
Perché, adeguando gli aspetti
tecnico realizzativi allo sguardo del protagonista, Il figlio di Saul si
presenta con delle limitazioni –
dal formato della cornice filmica, ridotto a 4.3, alla profondità di campo
della mdp, equiparata a quello
dell’occhio umano – che rendono come meglio non si potrebbe la sensazione di
vivere in prima persona, in una sorta di semi soggettiva, l’esperienza
all’interno del campo di concentramento. Per capire cosa intendiamo e dare
l’idea di quello che significa, basterebbe limitarsi a una delle sequenze
iniziali, quelle che precede il ritrovamento del corpo del ragazzino a cui Saul
decide ostinatamente di dare sepoltura. La scena, drammatica quanto consueta in
un film del genere, nelle mani del regista ungherese si trasforma in
un’esperienza a cui non avevamo mai assistito perché, messi sullo stesso piano
di Saul che al nostro pari può solo ascoltare e non vedere ciò che sta
accadendo all’interno delle camere a gas, si rischia di ritrovarsi
impreparati alla potenza di un transfert che ci cala all’interno della tragedia nel momento in cui essa si sta
compiendo.
Ma il linguaggio, da solo,
non basterebbe a giustificare l’eccezionalità dell’opera se non fosse che il
film, partendo dal pragmatismo di una trama occupata per la maggior parte dalle
procedure mediante le quali Saul e i suoi compagni portano a compimento il
proprio lavoro, riesce a
trascendere il dato fenomenologico, facendo della ritualità del gesto il mantra di un’invocazione che oggi come allora fa appello
alla pietas di tutti gli esseri
umani, ivi compresi quelli crudeli e spietati che conosciamo attraverso il
film, ai quali Saul e la sua storia oppongono un atto di fede che diventa
poesia nella scena conclusiva, in cui è proprio la morte a consegnarci le
chiavi di un nuovo inizio. Candidato all’Oscar per il miglior film straniero Il
figlio di Saul è destinato a doppiare la vittoria del Golden Globe ottenuta
nella medesima categoria.
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