Animal Kingdom, Rai 2, ore 23,43.
Animal Kingdom è il formidabile esordio dell’australiano David Michôd, che ha fatto impazzire la critica americana e razziato premi ovunque. Pensare che Michôd l’ha scoperto nel 2007 il Milano Film Festival. Questo suo lavoro è una storia feroce di uomini dagli istinti bestiali: un ragazzo innocente entra in una famiglia criminale e ne uscirà trasformato. Orrori. Violenze fuori e dentro la famiglia. Una madre-matriarca spietata. Film di durezza insostenibile, ma girato senza enfasi, lontano dall’epica muscolare del Padrino. Un film che ricorda semmai Rocco e i suoi fratelli, ma in versione brutalizzata e autocannibalica. Michôd si è confermato a Cannes 2014 con il suo nuovo The Rover autore di peso.
Animal Kingdom, regia di David Michôd. Sceneggiatura di David Michôd.
Attori: James Frecheville, Guy Pearce, Ben Mendelsohn, Luke Ford, Joel Edgerton, Jacki Weaver, Sullivan Stapleton, Anthony Hayes. Australia, 2010.
E poi dicono che Melbourne è la città più cool d’Australia, la capitale culturale di quell’enorme paese-isola-continente, musei gallerie d’arte concerti e quant’altro. La sofisticata Melbourne contrapposta alla più popolata e popolare Sydney. Invece uno si va a vedere Animal Kingdom, uno dei non frequenti film australiani che approdano sui nostri schermi, e si ritrova una Melbourne città violenta da manuale del cinema noir, sfondo e contenitore di un crime drama come non se ne vedevano di così duri e brutali da tempo. Letteralmente una giungla metropolitana, dove gli umani manifestano senza più filtri culturali e controlli sociali la loro bestialità.
Melbourne è il regno animale, l’animal kingdom del film di David Michôd, trentottenne regista qui al suo primo (e formidabile) lungometraggio, anche autore della meticolosa sceneggiatura scritta, e premiata in patria con un finanziamento, già nel lontano 2004. Ce ne son voluti di anni perché diventasse un film. Il titolo darwiniano (il più esplicitamente darwiniano che io ricordi dai tempi di Il diritto del più forte di Rainer Werner Fassbinder) di sicurò è stato scelto molto consapevolmente da Michôd, perché dichiarasse e lasciasse capire da subito di cosa tratti il suo lavoro. Gli umani sono animali, lasciateli appena fuori controllo e senza regole sociali e saranno capaci di ogni ferocia. Vige tra loro come nella savana o nel fondo dell’Amazzonia la legge dura della selezione della specie e della sopravvivenza del più forte, anzi, per essere darwinianamenti corretti, del più adatto. Che è poi quanto puntualmente accade in Animal Kingdom, dove tutto si svolge come in un teorema implacabile, fino alla dimostrazione finale della tesi enunciata già nel titolo. Da parecchio non si vedeva un film dimostrativo e didascalico come questo, che però ha l’accortezza e l’abilità tutta contemporanea di non essere predicatorio e di occultare la sua tesi sotto una ragnatela di dialoghi e fatti e azioni che ipnotizzano lo spettatore e non lasciano pensare troppo al sottotesto.
Josh è un diciassettenne che resta solo dopo la morte per overdose di eroina della madre (venti, trent’anni fa, nelle strade e nei film – chi si ricorda Panico a Needle Park? – erano i ragazzi a morire di eroina, adesso sono i cinquantenni, che poi sono i ragazzi di allora cresciuti e invecchiati ma sempre con la voglia di roba). L’incipit di Animal Kingdom, Josh che chiama la polizia per soccorrere la madre e lui che forse per disperazione forse per atarassia emotiva si guarda la tv mentre i poliziotti cercano di capire se lei sia viva o morta, dà il tono a tutto il film, gli conferisce da subito quel senso di desolazione e di vuoto morale che non verrà mai meno fino alla parola fine. L’orfano Josh ha la pessima idea di chiamare nonna Janine, una che non fa una piega quando sente che la figlia è morta, pensare che era l’unica femmina di famiglia. Pessima idea, si diceva, perché da lì incominciano i suoi guai. Si ritrova a casa della nonna, madre matriarca di una famiglia tribù composta da quattro figli maschi, tutti criminali di mestiere, ex rapinatori o rapinatori ancora attivi, spacciatori piccoli e grandi di tutte le dorghe smerciabili sul mercato. C’è lo psicopatico paranoide (il maggiore), c’è quello saggio che investe i proventi in borsa e guadagna (“è lì che circolano i soldi veri, meglio che con la droga e si rischia di meno”), c’è il bamboccione, c’è quello tutto tatuaggi, muscoli, coglioni e testosterone ma senza che gli funzione un neurone che è uno nella testa bacata. A lei, la matriarca Janine, basta un’occhiata, la minima alterazione della voce per dominarli e soggiogarli tutti, perché non solo è lei a detenere il potere ma anche a stabilire le strategie di sopravvivenza cui tutti si devono attenere. Ape regina e figli-fuco.
In questo covo animale (le comunità criminali sono quelle che meglio lasciano trasparire gli istinti belluini della nostra specie, per questo adoriamo leggere storie e vedere film su di loro: perché sono il nostro speccchio, lo specchio di come siamo nel profondo) arriva l’ignaro e ancora innocente Josh: che subirà un’accelerata educazione alla vita e alla criminalità. Animal Kingdom è anche un classico film di formazione, solo che l’esito della Bildung stavolta non è l’integrazione nella società dei normali ma in quella deviante della delinquenza. In questo percorso, su cui Josh si inoltra velocemente, la morte giocherà pesantemente la sua partita. Sarà una scalata verso l’orrore e una discesa negli abissi, una deriva di violenza fuori e dentro la famiglia. Josh si troverà a dover decidere se mantenersi leale alla legge del sangue o diventare un collaboratore della polizia, saranno gli eventi a fargli capire da che parte stare. Sopravviverà, ma sarà un altro Josh. Un tragitto, il suo, che ricorda quello del protagonista di un’altra bellissima crime story del cinema recente, Un prophète di Jacques Audiard. Solo che qui siamo al di fuori del cinema di genere, è questa la novità stilistica di Animal Kingdom. Michôd evita accuratamente di applicare il canone della crime story. Adotta un approccio cool, antimelodrammatico, anti-epico. Di famiglie criminali ne abbiamo viste tante al cinema, a partire da quella diventata paradigmatica del Padrino. La storia dei Cody, così si chiamano Janine e figli, ha molte analogie con quella dei Corleone, ma senza quell’afflato epico, senza le mitologizzazioni di Coppola. In Animal Kingdom lo stile è volutamente dimesso, ipernaturalistico, a mimare la quotidiana normalità e banalità del crimine. L’efferatezza, sembra dirci alla Hannah Arendt il regista sceneggiatore Michôd, è banale e piattamente abitudinaria. Gli orrori nella vicenda si susseguono e producono sangue in quantità insostenbile, ma l’occhio del regista rimane impassibile, osserva le dinamiche familiari nel loro farsi e disfarsi esattamente come osserverebbe quelle di una qualsiasi famiglia middle class. Solo che qui la quotidianità, l’attività dei suoi componenti è il delinquere. Solo che qui i mariti non vanno a lavorare in banca, ma sparano e spacciano. Michôd, co-fondatore insieme a uno degli interpreti del film, Joel Edgerton, di un’associazione di film-maker indipendenti, Blue Tongue, in Animal Kingdom fa del puro cinema indie. Adotta un linguaggio spoglio e basico, a cogliere la naturalezza dei gesti, elimina ogni filtro formalistico, azzera ogni artificio di messinscena, rinunciando però a quello che è ormai un vezzo del cinema indipendente, la camera a mano. Naturalmente c’è anche la lezione del neorealismo all’inglese di Ken Loach e Mike Leigh, arrivando fino all’Andrea Arnold di Red Road e Fish Tank. Eppure il volume tenuto volutamente basso da Michôd rende ancora più deflagranti e insostenibili gli scoppi di violenza. Violenza che a un certo punto diventa cannibalica, si sposta tutta dall’esterno all’interno della famiglia, con nonna e mamma Janine che spietatamente e senza la minima emozione decide chi dei suoi deve vivere e morire, chi della sua carne e del suo sangue va sacrificato perché gli altri sopravvivano. Janine si muove e agisce con la lucidità di chi ha come obiettivo la salvaguardia e la trasmissione del proprio patrimonio genetico e nient’altro. Questo solo le importa. Il personaggio della matriarca Janine sembra uscire dai trattati di sociobiologia e di etologia che spiegano l’umano secondo le leggi animali. È l’incarnazione delle tesi estreme del più darwiniano dei libri delle ultime decadi, Il gene egoista di Richard Dawkins (che Michôd deve aver letto). Janine è la figura che ci resta in mente dopo aver visto il film, un personaggio che ha la grandezza del male delle tragedie antiche, di Shakespeare, degli elisabettiani. Janine è la grande invenzione di Animal Kingdom, il suo vero centro e sostegno narrativo. La femmina che governa i maschi, anche con la seduzione se necessario, e i baci quasi da incesto che lei dà e pretende dai suoi quattro maschi criminali (e dal nipote che si è aggiunto) lo dimostrano. Ci sono film di sceneggiatura e film di regia. Animal Kingdom è film di sceneggiatura. Michôd appartiene a quella schiera, non troppo folta nel cinema contemporaneo, degli autori che privilegiano la scrittura, la cura del racconto rispetto all’intervento registico. Che qui non è sciatto, solo conseguente e al servizio della sceneggiatura, che è magnifica, veramente. Il copione di Animal Kingdom potrebbe essere ripreso in teatro, replicato in infinite altre versione, tanto è solido e ben costruito, oltre che avvincente. Non c’è un attimo di tregua. Nessun orrore ci viene risparmiato, e si esce dal cinema con la sensazione di aver sfiorato l’abisso. Eppure Michôd non eccede, non carica, non forza mai. Nessuna morte violenta ci viene apertamente mostrata. Vediamo il sangue sui muri, sul parabrezza, sul pavimento, non vediamo mai i corpi nel loro perdere la vita. La pornografia della violenza, che ammorba tanto cinema di oggi, qui non c’è. Animal Kingdom è crudele e però pulito, morale. Come il suo protagonista Josh nella terribile scena finale.
Dopo questo film c’era molta attesa a Cannes 2014 per il nuovo di David Michôd, The Rover, presentato fuori concorso nella sezion Midnight Screenings. E andata bene, The Rover, una specie di nuovo Mad Max, non ha deluso.
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