La talpa, Iris, ore 21,00.
Ripubblico la recensione che ho scritto nel settembre 2011, subito dopo averlo visto alla Mostra di Venezia dov’era stato presentato in concorso. Lo trovai di impeccabile confezione, ma non così avvin cente. Più di due ore (ma mi sembrarono il doppio) di spiate e controspiate, doppi e tripli giochi così contorti da perderci la testa e non capirci più niente. Una partita tra agenti britannici e sovietici di lentezza esasperante, come una gara di scacchi in cui i contendenti si concedono tutto il tempo che vogliono per una mossa, e oltretutto con un modestissimo colpo di scena (colpo di scena?) finale. Ma il film trovò già allora una quantità di estimatori e non ha più smesso di piacere. Anche se uscito senza premi da Venezia, ha avuto poi ottima accoglienza in Gran Bretagna e negli Stati Uniti. Bene, mi sono detto, sarà meglio che lo riveda, magari cambierò il mio giudizio, magari fuori dalla nevrosi festivaliera riuscirò ad apprezzarlo. L’ho rivisto, e mi sono annoiato di nuovo. Certo, rileggendo quanto ho scritto allora devo ammettere di non averci preso quando mi chiedevo a quale pubblico potesse mai piacere oggi un film così, una spy story così diversa dagli imperanti e adrenalinici ‘Bourne’ e ‘Mission: Impossible’. Invece il suo pubblico l’ha trovato, eccome. Mi arrendo all’evidenza. Ma a me ‘La talpa’ continua a non entusiasmarmi. Sarà che di John Le Carré ho fatto il pieno tra anni Sessanta e Settanta, con libri e film, per avere ancora la voglia di seguire le sue storie e i suoi pirandellismi. Sarà che mi ricordo troppo bene ‘La spia che venne dal freddo’ con Richard Burton, girato in un livido bianco e nero in una Berlino ancora divisa dal muro, per urlare al capolavoro di fronte a questo film che la Guerra Fredda la ricostruisce e la ripropone in vitro con un inevitabile effetto di artificialità. Ma ecco quello che ho scritto a Venezia, riproposto senza cambiare una virgola.
La Talpa (Tinker, Tailor, Soldier, Spy) di Tomas Alfredson.
Con Gary Oldman, Colin Firth, Tom Hardy, John Hurt.
Tratta dal capolavoro di John Le Carré La talpa, una spy-story dal gusto classico benissimo girata, con un manipolo di attori inglesi eccellenti. Ma contorta e labirintica, lenta e avvolgente, lontanissima dal cinema spionistico attuale alla Bourne. Un film nobile, ma dalla noia asfissiante e a tratti incomprensibile.
Ora, cosa mai avrà spinto i produttori a investire in questo spionistico dal sapore vintage, tutto un sospettare e sorvegliare e pedinare e punire a ritmi lentissimi, adesso che il paradigma della spy-story è Bourne, cioè massima velocità e adrenalina? Dove andrà a pescare il suo pubblico questo pur nobile e impeccabilmente confezionato Tinker, Tailor, Soldier, Spy, oggi che il consumatore di popcorn dei multiplex se non vede laghi di sangue e qualche decina di morti nella prima mezz’ora diserta e molla il colpo? Cos’è, un’operazione filologica che intende far rivivere la spy-story com’era e come non è più? Non capisco, non ho capito. Sarà che non ho mai amato John Le Carré e prodotti derivati (a parte La spia che venne dal freddo girato molto, molto tempo fa da Martin Ritt), non ho mai amato, intendo, le sue giravolte e le sue circonvoluzioni e tortuosità, i doppi e tripli e quadrupli giochi, i colpi e controcolpi di scena, la verità che signora mia non è mai quella che appare e che forse non esiste proprio, e poi tutta la retorica dello spionaggio ai tempi della guerra fredda che tra Ovest e Est ci si combatteva senza esclusioni di colpi ma in fondo rispettandosi, mica come adesso che tutti giocano sporco e al massacro. Si sarà capito che questo Tinker ecc., che poi è La talpa (così si chiama in italiano il romanzo di Le Carré da cui è tratto) non è proprio il mio film preferito di questo festival. Mi sono impegnato, ho cercato di farmelo piacere, di apprezzare le atmosfere ambigue, l’aura british, l’ecellenza degli attori altrettanto british, le ombre e le penombre in cui il regista svedese Tomas Alfredson (quello del film etno-adolescenzial-vampiresco Lasciami entrare) immerge la vicenda, ma non ce l’ho fatta. Troppo contorta questa storia, così contorta da essere quasi incomprensibile, e pochissimo appassionante, nonostante che il libro sia considerato un capolavoro del genere. Quanto allo stile adottato da Alfredson mi pare guardi, più che alle grandi spy-stories classiche degli anni Sessanta come appunto La spia che venne dal freddo di Martin Ritt o il meraviglioso Ipcress File con Michael Caine, al recente Le vite degli altri del tedesco Florian Henckel von Donnersmarck, temo uno dei film più sopravvalutati degli ultimi anni. Toni lividi e plumbei, spie dalla faccia qualunque e senza il minimo appeal, ambienti disadorni, luci basse. Film, come dire, di qualità indiscutibile, Tinker ecc., ma di una noia asfissiante. La storia, per i cultori del genere, è abbastanza nota. Primi anni Settanta. La spia dalla faccia qualunque e dall’onorata carriera George Smiley (siamo in Gran Bretagna, dunque si parla di servizi segreti di Sua Maestà) è stato pensionato. Ma si sospetta che i sovietici abbiano infiltrato nell’apparato dei servizi inglesi, e ai massimi livelli, una talpa. Sicché Smiley viene richiamato al lavoro perché con la sua abilità la individui e neutralizzi. Mica facile. C’è davvero la talpa o sono gli stessi sovietici che per qualche oscuro motivo vogliono farlo credere? Tutti sospettano di tutti, tutti sono ambigui, tutti potrebbero fare il doppio gioco, e forse lo fanno. Si parte con una missione andata male in quel di Budapest, si prosegue naturalmente a Londra, epicentro della vicenda, tra agenti spediti all’estero e richiamati in patria, est europei non si capisce più al soldo di chi, filoamericani e antiamericani. Un verminaio. Escursioni a Istanbul e Parigi, il che ci consente di ammirare un po’ di Bosforo e un po’ di Senna.
Non provo nemmeno a raccontare una parte della vicenda, tutto è così complicato da far venire il mal di testa. Agenti, controagenti, traditori da una parte e dall’altra. Sovietici all’occorrenza crudelissimi e spietati. Morti disseminati in mezza Europa. Di abbastanza nuovo rispetto ai film analoghi dei tempi della guerra fredda è che stavolta le scene all’est sono state girate all’est, Budapest è davvero Budapest, mica come allora che non si poteva e per ambientare una sequenza oltre la cortina di ferro si doveva andare a Zagabria o Lubiana spacciandole per Praga o Mosca o Bucarest, che lì gli jugoslavi non allineati permettevano alle troupe occidentali di girare.
La talpa comunque alla fine viene scoperta, e il buon Smiley fa un saltone di carriera. Uno di quei film, Tinker ecc., che o riescono a ipnotizzarti e avvolgerti nelle loro spire, o ti lasciano indifferente. A me è capitata la seconda: sorry. Gli attori sono attori inglesi, dunque bravissimi per definizione. Gary Oldman è uno Smiley perfetto e un po’ laido (lui lo è sempre un po’), John Hurt gigioneggia alla grandissima, l’oscarizzato Colin Firth fa stranamente una piccola parte, poco più che un cameo, e non si capisce perché. Chi (come me) ha apprezzato il formidabile Bronson di Nicolas Winding Refn sappia che qui ne ritroverà il protagonista, Tom Hardy.