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Il film imperdibile stasera in tv: AMERICAN HUSTLE (giov. 25 febb. 2016, tv in chiaro)

Creato il 25 febbraio 2016 da Luigilocatelli

American Hustle – L’apparenza inganna, Rai 3, ore 21,15. hustle107American Hustle – L’apparenza inganna, un film di David O. Russell. Con Christian Bale, Amy Adams, Bradley Cooper, Jennifer Lawrence, Jeremy Renner, Robert DeNiro, Alessandro Nivola, Michael Peña.hustle104Racconto grottesco e neo-espressionista di una stangata messa su dall’Fbi per incastrare alcuni politici corrotti, e ispirato a un caso anni Settanta. Parte come un Lubitsch degradato e volutamente volgare, prosegue come certi film isterici e survoltati dell’Al Pacino di allora (Serpico, Quel pomeriggio di un giorno da cani ecc.). Un film che fa della grevità e perfino della repulsività la sua cifra, la sua distinzione. Prendere o lasciare, però il talento di David O. Russell non si discute. American Hustle è un film parecchio originale, senza molti parenti. Cast formidabile. Voto 7 e mezzo 935381 - AMERICAN HUSTLEMi sa che questo è il film migliore di David O. Russel, uno che pure ci ha dato ultimamente (dopo una pausa seguita a cose malriuscite e volontario esilio) The Fighter e Il lato positivo, insomma roba grossa, di peso. Forse il film migliore, di sicuro il più personale, quello dove O. Russell riesce a infilare la sua idea di cinema e a definirla, stabilirla, stabilizzarla chimicamente in un modello riconoscibile. Se mai ci fossero stati dubbi fino a oggi, adesso non ce ne sono più sul fatto che il nostro sia un autore. Cioè, un fabbricatore di cinema non seriale e derivativo. Un autore di quelli americani, mica europei, capaci di giostrare tra cinema audience-oriented e aristocratico, tra cinema di margine e mainstream, con una elasticità che dalle nostre parti non capita di frequente (noi, inteso come italiani ed europei, nel nostro cinema quasi sempre scissi, dimidiati tra il colto e il pop). In American Hustle c’è esemplarmente tutto il suo regista, c’è la sua passione per storie e personaggi al bordo con la follia e/0 con l’esclusione sociale, e il loro scommettere sul dentro o fuori, il tutto o il niente. C’è la propensione david o. russelliana per il laido, il sozzo, il disarmonico, il plebeo, il fallato (e il fallito) e uno stile greve, pesantuccio anzichenò, che finisce col produrre un cinema vischioso, come certi drink untuosi e melmosi, certo cibo difficile da digerire. Questo American Hustle è un film che odora, anzi puzza e manda zaffate, come se fossimo in un hamburgerificio della profondissima America. Cinema di corpi e carni, e di oggetti che quei corpi ricoprono, denudano, nascondono e enfatizzano. Cinema di cui ammiro la coerenza e anche il coraggio, la non piacioneria, il tono ruvido, ruspante, anche inelegante, senza la minima ombra di quella carineria che è oggi, al cinema e nel nostro vivere tutto, una vera emergenza, un vero flagello sociale. Ammiro, ma non amo. Non mi è congeniale, ecco. La prima scena di questo AH, per esempio. Volutamente repellente, sgradevole. Come dire a muso duro allo spettatore: così è (questo film), che vi piaccia o non vi piaccia, e se non vi piace, andatavene pure. In un interno anni Settanta – il film mica per niente si svolge nella decade più trucida della nostra vita e temo di tutto il Novecento – vediamo Christian Bale mettersi schifosamente un parrucchino, anzi toupet, incollandolo e poi riportandoci sopra a mascherarlo ciocche di capelli straunti. Ha il camicione aperto, Bale, su una pancia prominente da ingollatore sfrenato e seriale di birre e vari formati alcolici, un uomo che sta agli antipodi precisi di ogni eleganza, chic, charme, finezza. La secrezione solidificata della volgarità, la sua materializzazione in forma e deformazione umanoide. C’è già parecchio del film in questa scena, e c’è parecchio del suo regista. Quanto a Christian Bale, ancora una volta si mette al servizio di David O. Russell con assoluta dedizione e, dopo essere dimagrito per The Fighter fino a sembrare uno spettro che cammina (vincendo un Oscar), qui ha messo su, tutto sul girovita, più di venti chili. Così si presenta a noi, sordido e repulsivo, quale Irving Roselfeld, il personaggio chiave di questa ballata grottesca e survoltata che non sarebbe dispiaciuta a Pietro Germi, il Germi più scatenato. Irving è un losco figuro che vive di losche truffe a povericristi abbisognosi di soldi e con l’acqua alla gola, turpe attività coperta da una catena di lavanderie. Finché non incontra Sydney Prosser, texana procace e priva del pur minimo scrupolo, una che viene dal fango come Irving e dal fango si è tirata faticosamente fuori e a tutto è disposta pur di non tornarci (che è poi, se ho capito bene, il vero senso della parola hustle). Chiaro che lei e Irving si intendono subito, si annusano, simili come sono, fatti della stessa materia dura e greve e impermeabile a ogni fremito morale. Colpo di fulmine, che è personal-passionale e anche professionale. Con Sydney – una Amy Adams al solito formidabile, e anche più complessa e stratificata del solito – è subito intesa, e Irving la arruola nella sua attività, cui lei darà un contributo fondamentale rivelandosi la complice perfetta. Di truffa in truffa, di stangata in stangata, finiscono col pestare la classica cacca allorquando tentano di raggirare l’ennesimo tizio che è invece un agente Fbi (Bradley Cooper, antipatico come sempre però bravo parecchio a rifare gli italoamericani del cinema anni Settanta, i giovani Al Pacino e De Niro in testa, con pure un po’ di Travolta). Sono incastrati. Per cavarsela i due son costretti ad accettare la proposta rischiosa dell’agente Richie: datemi una mano a mettere in piedi una colossale trappola per fregare certi politici corrotti, e avrete soldi e libertà. Si tratta di fingersi mediatori di un finto sceicco disposto, pur di poter aprire lucrosi casinò in alcuni stati americani (New Jersey in testa per via che lì ci sta Atlantic City), a pagare tangenti milionarie. Storia che, pur a nomi e luoghi alterati e con abbondanti dosi di invenzione, ricorda parecchio da vicino l’affare Abscam che a fine anni Settanta sconvolse l’America dopo che l’Fbi era riuscita a beccare con le mani sulle bustarelle alcuni esponenti di medio calibro delle istituzioni. Fino a questo momento David O. Russell sembra voler rifare certo Lubitsch, e viene in  mente Mancia competente, che di Lubitsch è il mio preferito, con un ladro lui e una ladra lei di cui la coppia Christian Bale-Amy Adams sembra la reincarnazione, anche se in versione degradata e deglamourizzata. Come una coppiaccia che in una balera sgangherata si mettesse a rifare i divini volteggi di Fred Astaire e Ginger Rogers. Poi American Hustle, man mano che si inoltra nella sua recita di falsi sceicchi e falsi faccendieri, recita che scivola nella farsa, si conforma sempre più sul modello cinematografico della Stangata (che peraltro pare abbia ispirato lo stesso Fbi per l’affare Abscam) e soprattutto su quello di certi film isterici al-pacineschi tipo Quel pomeriggio di un giorno da cani, Serpico e Scarface. Bradley Cooper e Jeremy Renner (nei panni sporchi di un politico pronto a intascare tangenti, ma a modo suo sincero e al servizio della sua comunità) rifanno filologicamente certo repertorio di tic e vezzi e lazzi e gestualità di ogni broccolino e little italy consegnatici in quegli anni dal cinema americano. Poi c’è Jennifer Lawrence, moglie quasi psicotica di Irving/Bale, bambolona rozza dalla testa cotonatissima e dal pensiero altrettanto cotonato e ingarbugliato, di una volgarità e cafonaggine sublimemente Seventies, una pupa dalla mente fusa e confusa ma che si rivelerà molto abile nel farsi i propri interessi e a dare del filo da torcere al fedifrago marito, reo di essersi innamorato della sua complice. Jennifer Lawrence. Che dimostra definitamente di essere la vera star di oggi, non solo di una bravura indiscutibile, ma dotata di un’energia che trapana lo schermo. Quando c’è lei si fa il vuoto intorno. Nella scena in bagno con Amy Adams, con tanto di bacio lesbicheggiante, è lei a stravincere, eppure Adams è una con le palle e una delle migliori attrici in circolazione, mica una sciacquetta qualsiasi. Ah sì, nel film c’è anche De Niro il quale rifà – come spesso ormai gli capita, anche se grazie a Dio stavolta si ritrova in un film vero – De Niro, ossia il solito boss mafioso al cui cospetto tutti rabbrividiscono. American Hustle ha moltissimi pregi, quello di essere un prodotto atipico fino all’unicità, difficile trovargli negli ultimi anni nel cinema americano parenti stretti o anche lontani (le affinità con Argo sono solo di superficie, di primo strato). Quel che American Hustle non ha è il ritmo. Il film si estende per la bellezza di 140 minuti, troppi, come se Russell si fosse affezionato, più che alla sua storia, ai suoi personaggi, cui concede volentieri momenti e assoli in cui possano espandersi e riempire lo schermo. Tutti, come in un’opera, hanno le loro scene madri, cui si aggiungono scene di coppia, a tre, di gruppo, in un andamento che è più teatrale che cinematografico. Con momenti di ristagno narrativo e di noia. Quel che resta è l’impressione di aver assistito a un film accaldato, eccessivo, sudato, a uno spettacolo rutilante con molti pieni e scarsi vuoti, dove dettagli si aggiungono a dettagli, segni si sommano a segni (gli anni Settanta, già di loro massimalisti, qui sono portati stilisticamente al parossismo con parruccone e gioielloni di massima cafonaggine), in un quadro affollato di personaggi maggiori e minori realizzato con pennellate materiche di vario colore, e con un che di istrionicamente espressionistico. Not my cup of tea, ma non posso non riconoscere il talento di Russell.


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