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Il filo di perle cinese? di Robert D. Kaplan

Creato il 15 aprile 2013 da Conflittiestrategie

 

[Traduzione di Francesco D’Eugenio da: China's String of Pearls?/Stratfor]

Recentemente il New York Times ha scritto che la Cina sembra aver accettato di rilevare il controllo di un porto da 200 milioni di dollari che ha costruito per il Pakistan a Gwadar, sull’Oceano Indiano, vicino al confine iraniano e vicino all’entrata del Golfo Persico. Staremo a vedere se questo accordo avrà seguito. Se fosse così, sarebbe significativo a livello geopolitico. Come ho avuto modo di constatare durante un sopralluogo nel 2008, Gwadar è affetto da gravi problemi di sicurezza, in misura maggiore degli altri porti sull’Oceano Indiano che la Cina ha costruito, co-finanziato o migliorato. Esso si trova in una regione isolata del Pakistan, interessata dal separatismo dei Beluci. I leader che intervistai formularono minacce esplicite contro la costruzione di un oleodotto da Gwadar. Alcuni anni fa, la Cina si fece indietro e lasciò che una società di Singapore gestisse il porto di Gwadar. Più o meno contemporaneamente, Pechino abbandonò i piani per una raffineria contigua. Nel 2011, quando il Pakistan chiese espressamente alla Cina di rilevare il porto da Singapore, la Cina rifiutò. Essa dispone già del porto pakistano di Karachi, come fa notare l’analista indiano C. Raja Mohan. La Cina sta chiaramente tutelando i suoi investimenti a Gwadar.

L’apparente volontà cinese di intraprendere il passo successivo a Gwadar giunge mentre gli Stati Uniti si ritirano dall’Afghanistan.  Se l’Afghanistan dovesse stabilizzarsi anche solo parzialmente dopo il ritiro delle truppe USA, esso aprirebbe delle rotte di rifornimento che connetterebbero Gwadar all’Asia Centrale, e in ultima istanza alla Cina. Questo allevierebbe il cosiddetto “Dilemma di Malacca” per la Cina, che vede quest’ultima troppo dipendente per le importazioni di idrocarburi mediorientali dallo Stretto di Malacca (e dai vicini stretti di Lombok e Makassar). La Cina sta già costruendo strade e ferrovie in Asia Centrale e, realizzando parti dell’Autostrada del Karakoram tra la Cina sud-occidentale e il Pakistan settentrionale, ha dimostrato la sua capacità di superare gli ostacoli logistici. Un raccordo stradale e un oleodotto da Gwadar permetterebbero di trasferire energia e altri beni dal Medio Oriente senza dover passare dallo Stretto di Malacca. La Cina sarebbe poi in posizione per stabilire una postazione di ascolto vicino al Golfo Persico se effettivamente dovesse prendere in gestione Gwadar.

Il “Dilemma di Malacca” verrebbe ulteriormente alleviato la prossima estate, quando Pechino aspetta l’entrata in funzione di un altro porto con complesso di oleodotti che ha costruito: un porto che convoglierà petrolio e gas naturale dall’Oceano Indiano presso la costa della Birmania, trasportandolo da Kyaukpyu nello stato di Rakhine attraverso la Birmania centro-settentrionale fino alla provincia cinese meridionale dello Yunnan. I disordini etnici della Birmania costituiscono una sfida alla sicurezza per l’oleodotto cinese, e uno dei probabili motivi per cui la Cina sta attivamente mediando le dispute tra il regime birmano e uno dei suoi disleali eserciti etnici.

Con tutti questi progetti, questo è un periodo storico grandioso per l’ingegneria civile in Cina. Nel 2009 ho assistito personalmente alla costruzione da parte cinese dell’enorme complesso portuale di Hambantota nello Sri Lanka meridionale, nell’Oceano Indiano centro-settentrionale, che aprì ufficialmente l’anno successivo. Stando alle fonti, la Cina partecipa anche alla costruzione di un terminal per l’attracco di porta-container e di un ponte poco distante nella città portuale bengalese di Chittagong, il tutto mentre fornisce assistenza per la costruzione di un porto in acque profonde sull’isola bengalese di Sonadia, nell’Oceano Indiano nord-orientale. Il Centro Henry L. Stimson a Washington, tra gli altri, riporta che la Cina è potenzialmente l’investitore principale nel progetto per un porto e un oleodotto per il trasporto di petrolio dal Sud Sudan a Lamu, sulla costa settentrionale del Kenya, nell’Oceano Indiano occidentale.

Questa rete di porti sull’Oceano Indiano è stata soprannominata il “filo di perle” della Cina. I detrattori di questa idea hanno detto che la Cina manca della volontà e delle capacità per costruire basi navali in questi posti. Ma il filo di perle non era stato pensato in funzione delle basi navali fini a se stesse. Si tratta di un concetto molto più sottile, come ho spiegato esaurientemente nel mio libro del 2010: Monsone: l’Oceano Indiano e il futuro della potenza americana. Nei miei viaggi a Gwadar, Hambantota e in altri porti dell’Oceano Indiano dove i Cinesi avevano lavorato, ho descritto di una possibile impresa commerciale, politica, strategica e infine militare, i cui elementi costituenti non possono essere separati. Per essere sicuri, viviamo in un mondo post-moderno di distinzioni che svaniscono: un mondo dove a volte la guardia costiera è più aggressiva della marina militare, dove la potenza navale è civile oltre che militare, dove l’interdizione può essere altrettanto efficace delle capacità d’ingaggio navale superficie-superficie e dove il posizionamento delle navi militari è meno importante per le battaglie navali che non per quelle diplomatiche.

La Cina, per giunta, ha nell’Oceano Indiano delle radici storiche risalenti alla dinastia Song e all’alta dinastia Ming. In particolare, il regime cinese ha speso recentemente una notevole quantità di denaro in una campagna di pubbliche relazioni per resuscitare l’eredità dell’ammiraglio della dinastia Ming Zheng He, che vessò i mari tra Cina, Indie Orientali, Sri Lanka, Golfo Persico e Corno d’Africa nel Quindicesimo Secolo. I viaggi di Zheng He lo condussero in tutti i luoghi dove la Cina è coinvolta oggi in progetti portuali: sono le stesse rotte che le navi devono percorrere per trasportare gli idrocarburi mediorientali in Cina.

Oltre alla crescente dipendenza energetica dal Medio Oriente, la Cina è sempre più coinvolta nel commercio, sviluppo e nell’estrazione di risorse naturali in Medio Oriente e nel continente africano. L’Oceano Indiano si trova nel mezzo: l’Oceano Indiano è il principio organizzativo marittimo per un mondo eurasiatico del Ventunesimo Secolo in cui l’Asia Orientale e il Medio Oriente interagiranno sempre di più. In questo quadro, luoghi come Gwadar, Hambantota e Kyaukpyu possono diventare strutture di transito commerciale e stoccaggio per i prodotti in viaggio tra il Medio Oriente e l’Asia Orientale, di cui la Cina è la nazione dominante. Strategicamente, per l’impero commerciale cinese oggi in ascesa, essi sono l’equivalente delle stazioni del carbone del XIX Secolo. Ovviamente gli imperi non vengono mai dichiarati: piuttosto, come nel caso della Gran Bretagna e di Venezia, essi evolvono gradualmente nel corso di decenni e secoli come risultato di dinamismo interno, opportunismo commerciale e necessità diplomatiche.

La Cina comprende che l’utilizzo di queste infrastrutture dipenderà comunque da buone relazioni politiche e commerciali con i paesi ospitanti, motivo per cui la Cina è stata attiva su tutti i fronti politici ed economici nell’aiutare Pakistan, Birmania, Sri Lanka, Bangladesh e così via. Senz’altro, la Cina può essere considerata l’alleato politico più affidabile per il Pakistan. Pechino ha anche aiutato il regime dello Sri Lanka a vincere la guerra civile contro i ribelli di etnia Tamil. E la Cina compete con l’India in quanto ad aiuti al Bangladesh.

Per quanto riguarda l’uso da parte delle navi militari cinesi di questi porti in acque profonde allo stato dell’arte, tenendo conto degli stretti rapporti politici ed economici della Cina con questi stati costieri, oltre che ai vantaggi politici del contribuire a costruire e finanziare i porti in questione, è del tutto naturale aspettarsi che nel corso degli anni e dei decenni a venire, le navi militari cinesi – accanto alle imbarcazioni commerciali – visiteranno questi porti e usufruiranno delle loro difese. La Cina non ha bisogno di dominare il Pacifico Occidentale per avere una presenza navale nell’Oceano Indiano. Ci sono già cacciatorpediniere e imbarcazioni di rifornimento cinesi di pattuglia nel Corno d’Africa per combattere la pirateria, e laddove la potenza navale cinese crescerà ancora di più nelle acque limitrofe – nei Mari Cinese Meridionale e Orientale – intensificare le operazioni nell’Oceano Indiano sarà del tutto naturale.

La Cina sta incrementando la sua flotta di sottomarini nucleari e diesel-elettrici. Le navi nucleari – poiché non devono fare rifornimento di carburante e sono limitate unicamente dalla quantità di scorte alimentare che possono trasportare per i loro equipaggi – sono esattamente ciò che una nazione come la Cina, con ambizioni di dominio oceanico, desidera. Nessuna tra le mie conoscenze a Washington crede che i Cinesi domineranno due oceani o anche uno solo, ma in molti prevedono che nei prossimi decenni la Cina diverrà un’importante potenza navale sia nel Pacifico Occidentale che nell’Oceano Indiano, controllata dalla Marina USA e altri in un contesto militare complesso e multipolare.

L’espansione commerciale e strategica della Cina nell’Oceano Indiano ha di fronte molti ostacoli – la mera distanza, problemi di sicurezza locali, ecc. Ma l’ostacolo principale sarà la stabilità interna della stessa Cina. L’economia cinese, già problematica, potrebbe peggiorare sensibilmente fino al punto che lo stato monopartitico cinese, e la coesione interna che esso offre, potrebbero disfarsi. Se la Cina dovesse andare incontro a seri e prolungati disordini, le sue attività all’estero ne verrebbero compromesse.

Nel frattempo, i progetti portuali continuano ad avanzare. A Pechino, mi hanno detto che l’intera faccenda del filo di perle è solo una questione di singole compagnie cinesi che rispondono autonomamente alle opportunità locali che trovano nei paesi costieri. Questo è vero, fino a un certo punto. Ma dirigenti del Partito Comunista mi hanno anche detto che la Cina ha il diritto a una presenza nell’Oceano Indiano. Come ho detto, l’idea del filo di perle è vera purché se ne ammettano le sfumature. Gli stessi Cinesi potrebbero non avere un piano ben delineato o una strategia globale riguardo all’Oceano Indiano. Non fanno che tastare il terreno per avanzare, perché l’unico metodo che conoscono è quello di spingere dove c’è resistenza. Pertanto, tutto quello che possiamo fare è evidenziare le tendenze man mano che esse vengono alla luce


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