La realtà è dunque ben più complessa di quanto affermano i riduzionisti, categoria sempre meno presente -fortunatamente- nelle accademie universitarie, ma purtroppo ancora stabile sul web e sugli organi di informazioni. “La scienza ha detto quello”, “la scienza ha fatto quest’altro”, ripetono persone che mai hanno visitato un laboratorio, nemmeno con la scuola. Parlano di “vittoria della scienza sulla filosofia“, la ritengono l’unica fonte di verità, definiscono la “fantomatica” scienza come un essere pensante, un organismo che muovendosi e pronunciandosi autonomamente decide come vadano le cose nel mondo. E’ semplicemente la forma più comune di idolatria dei moderni, «quando il Cielo si svuota di Dio, la Terra si riempie di Idoli», direbbe Karl Barth. Da una parte, nella sezione scientifica dei quotidiano si parla solo di “gene della fedeltà”, “gene della sofferenza”, “gene dell’umiltà”, dall’altra c’è la guerra tra gli scienziati costretti a pubblicare qualsiasi cosa, anche con scarsa attendibilità, pur di ricevere uno straccio di finanziamento. «La scienza è malata» (Cortina 2010), è il titolo del recente libro di Laurent Segalat, genetista e direttore di ricerca al Centre National de la Recherche Scientifique, il quale ha spiegato che le quattro riviste scientifiche più conosciute totalizzano da sole il 20% degli articoli ritirati per “errori conclamati”, riconoscendo l’incompetenza dei propri redattori.
Secondo il fisico premio Nobel Richard Feynman, «a una maggiore conoscenza si accompagna un più insondabile e meraviglioso mistero, che spinge a penetrare ancora più in profondità» (“The Value of Science”, Basic Books 1958). Per lui nessuno potrà mai sostenere di aver capito la meccanica quantisitica, mentre il fisico statunitense Lee Smolin ha riconosciuto che «abbiamo fallito [...]. La nostra comprensione delle leggi della natura ha continuato a crescere rapidamente per oltre due secoli, ma oggi, nonostante i nostri sforzi, di queste leggi non sappiamo con certezza più di quanto ne sapessimo nei lontani anni Settanta» (“L’universo senza stringhe”, Einaudi 2007, p. X). Secondo il dottor Massimo Buscema, dr. computer scientist, esperto in reti neurali artificiali e sistemi adattivi, «la scienza non esiste se non fa errori. Di fronte alla complessità della natura, i pensieri di un uomo di scienza non possono che essere sfumati, flessibili, spesso contraddittori».
Proprio in questi giorni vi è stato un convegno all’Università di Milano-Bicocca e all’Università di Bergamo sul pensiero del celebre filosofo francese Gaston Bachelard, il quale ha contribuito (assieme a Kuhn, Popper e Feyerabend, ad esempio) ad obbligare «intere generazioni a fuoriuscire dalla tentazione sempre viva di riduzionismo e cioè di limitare la ragione alla sola ragione scientifica, confusa via via, per lo più, con il paradigma scientifico in vigore (meccanicismo, vitalismo, positivismo, evoluzionismo…) o addirittura ricondotta a empirismo o, ancora, identificata con la tecnologia», come ha spiegato Francesca Bonicalzi, docente di Filosofia morale nell’Università di Bergamo. La quale aggiunge: «Rispetto alle chiusure sempre ritornanti di una scienza che si sclerotizza in descrizioni oggettive e rigidi paradigmi e che, per questo, si rende incapace di interrogarsi sui propri metodi, la riflessione bachelardiana si impone come un pensiero al lavoro che produce effetti e misura il movimento dinamico – vale a dire attivo – della ragione». Anche il tentativo di sfruttare la scienza per abbordare il mistero dell’Essere pare dunque fallito. Passano i secoli, le ideologie si alternano, ma sempre più verificata è la dolorosa ammissione del premio Nobel Thomas S. Eliot: «Tutto il nostro sapere ci porta più vicini alla nostra ignoranza».