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“Il fiore della libertà” di Giuseppe Bartoli Ed. Zero Lire

Da Viadellebelledonne

Ginestre resistenza

25 APRILE 

L’importante è non rompere lo stelo 
della ginestra che protende 
oltre la siepe dei giorni il suo fiore. 
C’é un fremito antico in noi 
che credemmo nella voce del cuore 
piantando alberi della libertà 
sulle pietre arse e sulle croci. 
Oggi non osiamo alzare bandiere 
alziamo solo stinti medaglieri 
ricamati di timide stelle dorate 
come il pudore delle primule: 
noi che viviamo ancora di leggende 
incise sulla pelle umiliata 
dalla vigliaccheria degli immemori 
Quando fummo nel sole 
e la giovinezza fioriva 
come il seme nella zolla 
sfidammo cantando l’infinito 
con un senso dell’Eterno 
e con mani colme di storia 
consapevoli del prezzo pagato 
Sentivamo il domani sulle ferite 
e un sogno impalpabile di pace 
immenso come il profumo del pane 
E sui monti che videro il nostro passo 
colmo di lacrime e fatica 
non resti dissecato 
quel fiore che si nutrì di sangue 
e di rugiada in un aprile stupendo 
quando il mondo trattenne il respiro 
davanti al vento della libertà 
portato dai figli della Resistenza. 

AD UN PARTIGIANO CADUTO 

E’ un fiume di ricordi ormai amico 
la strada che conduce 
a quei giorni lontani di smeraldo 
dove sostammo come creduli ragazzi 
a creare coi sogni nelle vene 
fantasie di speranze e di parole 
fra pugni di “canaglie in armi” 
Forse potrei dimenticare il giogo 
che mi lega all’arco dei rimpianti 
se soltanto le voci dei compagni 
tornassero a cantare 
come quando la vita dilagava 
e tu portavi alla gioia di tutti 
il tuo sorriso di fanciullo 
e la forza serena dei tuoi occhi 
Ma anche se il tempo non ricama 
che fili d’ombra sulla memoria 
e il tormento di quell’assurdo giorno 
quando attoniti restammo 
davanti alla pietà della tua forca 
è pur sempre l’ora della tua lotta 
del tuo caldo vento di libertà 
immenso come grembi di colombe 
in volo fra fiori d’acquadiluna 
Tu solo amico adesso 
puoi scegliere i ritorni 
e dirci ancora 
col battito delle tue ali 
le bellezze della vita 
e le dolci innocenze della morte. 

NOI CHE CADEMMO 

Fummo una zolla qualunque 
al taglio del vecchio aratro 
che il nuovo trattore ferisce 
inpianto, sudore e lavoro 
Ora ascoltiamo i sospiri 
di neri e snelli cipressi 
dipinti da soffi di sole 
in chicchi di riso azzurrino 
che l’acre piovasco flagella 
Viviamo in bellezze di morte 
fra pioppi inclinati sul rio 
E siamo la gialla pannocchia 
che nutre la fame del povero 
che accende la fede nell’uomo 
Siamo promessa di pace 
che tesse tovaglie d’altare 
e bianchi lini di sposa 
per alta promessa di vita 
……………………………………. 
noi che cademmo a vent’anni 
nel sogno sublime dei liberi. 

CA’ DI MALANCA 

Se non sai leggere 
negli occhi rossi 
delle ginestre 
nate dal sangue 
della libertà 
la muta preghiera 
che scuote le catene 
dei tiranni . . . . 
Se non t’inginocchi 
sulla brace 
della carne accesa . . . . 
Se non piangi 
sui muri di corallo 
delle case arse 
e se non baci 
la paglia insanguinata 
dalle vene di tuo fratello 
sei solo un fardello inutile 
che non paga 
il giusto prezzo ai Morti 
Solo quando capirai 
tutto questo . . . . 
Solo quando ricorderai 
come mordevi con dente di lupo 
l’ultimo pane 
nel cavo della mano contadina 
potrai rivivere 
quella primavera colma di rosso 
per il primo fiore della Libertà 

I MORTI ASPETTANO  UN RAGAZZO DAGLI OCCHI DI SOLE  LA MÖRT ED CURBERA   LA MORTE DI CORBARA  I DISCORSI D’ALLORA  A CRESPINO  LA DISFATTA  UN BARATTOLO DI LATTA  UNA FARFALLA DI CENERE 
INTRODUZIONE 

Udimmo il tonfo delle rane 
negli alti silenzi dei meriggi 
e il respiro lieve dei cavalli 
nelle estese vele delle notti 
gonfie di lucciole e di fremiti 
Sulle nostre tavole di fieno 
abbiamo mangiato 
lacrime e canti 
fra grappoli di rondini 
in giostra nel cielo 
Udimmo la scure abbattersi 
sui letti deserti dei boschi 
mentre carri di ricordi 
si trascinavano lenti 
Poi arrivò l’alba 
d’una rossa primavera 
con brezze di mandorli avvolte 
nell’immemore pianto della terra 
Tornammo dalle nostre madri 
dopo una lunga notte insonne 
intonando canti senza dolore 
Le culle delle foglie 
che ci furono compagne 
raccolsero il vagito 
della rinata libertà 
e sui crateri di sangue 
- scavati - 
dalla nostra lotta 
mani nude di orfani 
sfidarono il cielo 
Dal buio delle fosse 
vergini di croci 
gli occhi spalancati 
dei partigiani caduti 
si chiuderanno solo 
se la loro speranza 
diventerà la nostra. 

Sono tornato dove un ragazzo 
dai grandi occhi di sole 
ha maturato le sue radici 
Sono tornato dove abbiamo 
sepolto la nostra giovinezza 
e dove il nome di battaglia 
nasceva tra bagliori di fuoco 
Ed ho ritrovato la mia estate 
L’estate dei ramarri sui muri 
la fionda dall’elastico rosso 
i piedi scalzi color di terra 
e tutta la luce del giorno 
a tingerci d’ambra le mani 
Qui “giocavamo” alla guerra 
fra siepi di rovi e di more 
dietro lo scudo delle foglie 
povera “canaglia” della libertà 
inerme come grembi di colombe 
Raccogliemmo morte e mirtilli 
e tra cappotti di lune rosse 
rubammo l’oro alle lucciole 
Quando tua madre ingobbita 
come la collina che ti colse 
soffocò l’urlo e i singhiozzi 
nella “tana” d’uno scialle nero 
per te cantarono le cicale 
e si schiusero nidi di viole 
C’era un profumo di ginestre 
nel cielo della tua ultima estate 
Ora ti guardo senza piangere 
compagno dagli occhi di sole 
e mi chiedo se non fu fortuna 
quel tuo andartene allora 
col freddo sudore di morte 
sul tenerume delle labbra 
ancora ebbre di latte materno 
Te ne andasti e forse fu meglio 
perchè adesso solo le pietre 
urlano come monumenti nudi 
e perchè ragazzo senza nome 
siamo ormai pochi a ricordare 
il “sorriso” delle tue tenere vene 
che si svuotavano come calici 
per l’ultimo brindisi alla vita. 

I s’arbuteva coma spig’d grân   Si rovesciavano come spighe di grano 
cun del biastèm che pareva preghir   con delle bestemmie che sembravano preghiere 
e vers e’ zêl   e verso il cielo 
pal’d s-cióp spudedi fra i dént   palle di schioppo sputate tra i denti 
l’andeva e’nom’d Maria e chietar sént   andava il nome di Maria e degli altri santi 
E prèm a caschê e fo Curbera   Il primo a cadere fu Corbari 
e par la bòta   e per il tonfo 
o tremê la tëra e o fo sobit sera   tremò la terra e fu subito sera 
A lé stuglé, ribèl senza pio’ él   Lì disteso, ribelle senza più ali 
u raspeva da e’ mêl   raspava dal male 
cun cla manaza grânda e cuntadéna   con quella manaccia grande e contadina 
……. bôna l’era la tëra ………..   ……………… buona era la terra 
grasa e féna …………….   grassa e fine 
Raspa Curbera, raspa stvò truvé   Raspa Corbari, raspa se vuoi trovare 
l’eteran cunzem dla libartê:   l’eterno concime della libertà: 
e’ sangue rumagnöl   il sangue romagnolo 
cla imbariaghê ogni côr   che ha ubriacato ogni cuore 
Strèca, strèca la tëra   Stringi, stringi la terra 
l’è sèmpar cl’udôr   è sempre quel profumo 
l’è sèmpar l’amôr dla stesa mâma   è sempre l’amore della stessa mamma 
cut fa da lët pövar fiol’d Rumâgna   che ti fa da letto povero figlio di Romagna  
Strèca ed elza la tësta, so canàja!   Stringi ed alza la testa, su “canaglia”! 
L’as drèza la camisa sanguneda   Si alza la camicia insanguinata 
la pê ôn lôm a Mérz, lôm’d premavera   sembra un lume a marzo, lume di primavera 
l’è bèl finì e’ su dé par na bangera   è bello finire la vita per una bandiera 
E cvànd che la prema sfója’d sôl   E quando la prima sfoglia di sole 
la spôrbia d’ôr tota la campagna   spolvera d’oro tutta la campagna 
e’partigiân e mör   il partigiano muore 
Bsén a lô ôn pòpul’d cuntadén   Vicino a lui un popolo di contadini 
o prega e o biastèma a tësta basa   prega e bestemmia a testa bassa 
Sôra a lô na bânda d’asasén   Sopra di lui una banda d’assassini 
la rid cun la vargôgna in faza   ride con la vergogna in faccia 
E’ sôl c’nas e dà vita a la brèza   Il sole che nasce da vita alla brezza 
nud coma Crèst, inciudê tna trèza   nudo come Cristo inchiodato in una treggia 
e pasa per l’amiga campâgna   passa per l’amica campagna 
l’ultum re dla muntâgna   l’ultimo re della montagna 
Brigant dla libartê e preputént   Brigante della libertà e prepotente 
ma s-cét com l’è s-cét la su zént   ma schietto come è schietta la sua gente 
s-cét coma i nost dê pasê bsén el stël  schietto come i nostri giorni passati vicini alle stelle 
fra e’ piânt’d mâma e cvèl de parabël  tra il pianto di mamma e quello del parabello 

(1) Silvio Corbari, medaglia d’oro della Resistenza. 

Parlavamo di noi 
quando la sera maturava 
la stanchezza del giorno 
e le contadine velate di nero 
raccontavano al cielo 
i guasti della pioggia 
del vento e della guerra 
Parlavamo di noi 
all’acqua vergine di fonte 
mescolando al grattare del mitra 
la ragione di crederci uomini 
e il diritto di lasciare 
alle bestie da soma 
il vanto pesante del basto 
Parlavamo d’idee 
mescolando bestemmie 
ai rosari di pietra 
per lasciare lontano l’inverno 
che marciva nei solchi 
e la fame 
che uccideva le ultime favole 
negli occhi dei bambini 
Parlavamo di noi 
cercando nei boschi la vita 
e nei sentieri di piombo 
le nostre radici di uomo 
Parlavamo di noi 
quando albe di fuoco 
scoprivano i nostri fantasmi 
già stanchi al primo mattino 
già vecchi a soli vent’anni 
Parlavamo del nostro domani 
davanti alla salma nuda 
d’un compagno caduto 
e ad un ventre di terra 
- che ingoiava - 
le noste tenere radici 
lasciandoci in bocca 
la voglia rabbiosa 
d’un tempo migliore 
in cui ancora sperare 

Vennero i giorni della primavera 
La terra si coprì d’allegria 
cantò tutti i colori del cielo 
andò a piangere sui seminati 
Nell’antica valle del Lamone 
fiorì il natale sacro dei ciliegi 
e le spighe in curva preghiera 
baciarono il rosso dei papaveri 
I campi non furono più tristi 
quando sopra sbocciarono gentili 
le rose selvatiche del maggio 
Nessuno parlava di morte 
fra le spine dei rossi lamponi 
Ma la morte era in ogni pietra 
nel filo dell’erbe e delle foglie 
La morte vagava lungo il fiume 
negli occhi delle bestie inquiete 
nel taglio affilato della scure 
E venne il giorno del martirio 
sull’inerme cuore contadino 
sulle mani rotte dal lavoro 
sulla vanga ancora impastata 
di buona terra e sacro sudore 
Quando i barbari furono pronti 
tacque il mormorio dell’acque 
e una nube scura salì al cielo 
a nascondere la rosa del sole 
Le mani strinsero altre mani 
Le parole e un pianto disperato 
narraron sogni e favole smarrite 
e negli occhi grandi delle madri 
si posò il bacio dei figli 
E l’ultimo pensiero andò lontano 
ai fuochi spenti alla terra arata 
all’oro reciso delle spighe 
e ai giorni senza più domani 
ai canti che si spegnevano 
a loro che salivano il Calvario 
e a noi, a noi, che siamo rimasti 
a cogliere i frutti d’una stagione 
nata da vittime innocenti 
Era l’intera valle delle Scalelle 
e dei castagni sacri a Campana 
che consumava l’ultima ora 
Non li chiamavano per nome 
per non spaccare la cesta dell’odio 
Un cenno, una spinta, un urlo 
e la morte li coglieva sul petto 
unendo il gemito di chi andava 
all’angoscia di chi attendeva 
Il campo diventò bara immensa 
nel tiepido meriggio estivo 
Noch ein! Noch ein! Noch ein! 
Ancora uno! Ancora uno! Ancora uno! 
E un colpo dopo l’altro 
rompeva il grido della carne viva 
e il sangue si fondeva in grumi 
nel rosario dei ceppi delle mani 
nella coppa umida della terra 
Quando il silenzio raccolse dai pendii 
l’ultimo colpo e l’ultimo grido 
- lontano - 
oltre la malinconia dei roveti 
un requiem di coralli accesi 
si scaldava al lume delle case 
e noi,, noi, quelli ancora vivi 
attendevamo un “nuovo” mattino 

P.S. Questa poesia intende ricordare l’eccidio di 42 inermi contadini vittime della barbaria nazista a Crespino sul Lamone – Luglio 1944. 

Io non ho perso la guerra 
quando combattevo 
nella nuda terra africana 
seppellito come un pidocchio 
dentro una gabbana 
fatta di sabbia e di sete 
mangiando cavallette 
Io non ho sporcato 
l’argento delle mie stellette 
nella steppa russa 
mordendo con dente di lupo 
le ossa condite di ghiaccio 
dei miei fratelli caduti 
Io perdo ancora la guerra 
tutte le volte che penso 
a me e agli altri ragazzi 
che col fucile in mano 
tenevamo Anna Frank 
sepolta in una soffitta 
E fra l’occhio spento del cielo 
e l’odio assassino della terra 
l’ebrea costruiva col sangue 
quel monumento di pace 
che schiaccia ancora adesso 
l’anima di tutti i boia 
Quella si che fu la vera disfatta 
il marchio d’una sconfitta 
che mi urla sempre addosso 
con una bocca larga 
come una camera a gas 

La stella dalla coda 
aveva appena perso 
l’ultimo filaccio 
ancora pregno di sangue 
Adesso il mondo 
poteva piangere 
rannicchiato 
fra gli spigoli 
delle case arse 
Ma un bambino 
aveva tanta 
tanta voglia di vivere 
di correre sulla rugiada 
che non appassiva più 
sulla terra dischiusa 
Cercava un barattolo 
per giocare a palla 
per capire dal suono 
di quel giocattolo 
che rideva fra i sassi 
 che il macello era finito 
Ma nessuna luna d’argento 
- rotolava - 
sul grembo della terra 
e allora spense 
i suoi piedi nudi 
fra spine di pietra 
e diventò subito un uomo 

Sarà festa grande 
al taglio del maggese 
per coriandoli di farfalle innamorate 
libere dalle culle 
dell’amore agreste 
Voleranno 
verso la vela 
tenera del cielo 
tra grida pulite 
di bambini 
frammenti ansiosi 
d’albe serene 
nati dalla brace 
della carne accesa 
E tornerà puntuale 
il ricordo 
della bimba di Bologna 
che sognava 
una farfalla di fiordaliso 
da chiudere 
nella gabbia del cuore 
Vedo la sua immagine 
dibattersi prigioniera 
fra i rovi delle schegge 
come rosa di macchia 
nella siepe 
Ogni anno 
- per non dimenticare - 
un filo di calendule d’oro 
illuminerà 
il sentiero di cenere 
grigio 
come la dolcezza 
d’un settembre 
Angela 
non rivedrà più 
gronde di luna 
né si scalderà 
all’abbaino del sole 
con occhi 
di passero sperduto 
Di lei resta solo 
un volo immenso 
di cenere 
che si posò leggero 
sui suoi capelli 
“come solinga 
lampada di tomba” 
 

Qualcuno di fronte a questa pubblicazione potrebbe intanto giustamente chiedersi a cosa serve la poesia. Rispondo con una frase dello scrittore americano William Carlos Williams laddove afferma che «niente di utile si trova nella poesia, ma l’umanità sta morendo miseramente ogni giorno per mancanza di ciò che si trova nella poesia». Pur ritenendo valido questo concetto si potrebbe pensare che la poesia possiede uno status specifico che la destina, lo si voglia o no, ad un pubblico di elite, a ristrette minoranze. 
Ma così non è. 
Abbiamo intanto un ricco patrimonio di versi dia-lettali che affonda le sue radici proprio nell’animo più popolare della nostra gente. E’ sufficiente ricorrere al lirismo di Aldo Spallicci o alla satira di Olindo Guerrini, alias Stecchetti, che esaltano la sensibilità più riposta e il diapason spirituale dei romagnoli, per capire l’importanza e il valore di immagini espressive che si richiamano alla fatica e al dolore dell’uomo, all’amore per la propria terra e le proprie tradizioni, concetti questi ancora profondamente radicati nell’animo più schietto del popolo. 
La poesia è anche pensiero e fantasia, immagine e sentimento e lo sarà sempre fino a quando il sole risplenderà sulle sciagure umane. 
Ed è proprio partendo dalla grande tragedia dell’ultima guerra che intendo dipanare il filo delle mie parole evidenziando,  in particolare, l’olocausto di milioni di persone che assieme all’antifascismo, va visto come il substrato della Resistenza. 
Ho avut o modo di leggere poesie scritte da bambini che hanno vissuto, prima di essere polverizzati nei lager tedeschi, momenti dilaganti di morte e disperazione. Si può cogliere in questi scritti una testi-monianza d’amore, un grido di condanna, un canto di speranza, un anelito di libertà che trascende la ricerca stessa della vendetta. Sono versi che diven-tano humus e linfa vitale offrendosi ad un’epoca in cui l’uomo barcolla alla ricerca di una luce che rischiari sentieri futuri per non morire per sempre. 
Sentite cosa ha scritto, prima di entrare nei forni crematori, un ragazzo di quattordici anni: 
“Prova, amico, ad aprire il tuo cuore alla bellezza  
quando cammini tra la natura  
per intrecciare ghirlande con i tuoi ricordi  
e anche se le lacrime ti cadono lungo la strada  
vedrai che è bello vivere”  
E non va dimenticato neanche il monito del piccolo ebreo Hanus “gasato” ad Auschwitz quando dice “che l’uomo non deve più lasciarsi riprendere dal sonno”. E il sonno in questo caso significa accettare supinamente le libertà perdute. 
Ed Alena Synkova sogna orizzonti di pace, pur  sapendo di dover morire, lasciandoci questi versi: 
“Vorrei andare sola  
dove c’è altra gente migliore  
in qualche posto sconosciuto  
dove nessuno uccide”  
Ho voluto di proposito far precedere alle mie poesie le stupende  parole di  alcuni dei  tanti ragazzi  che con il  
tappeto delle loro ceneri innocenti prepararono la Resistenza di tutta Europa.  
C’è una poesia che per il suo alto contenuto va inclusa in questa breve documentazione. Non è mia, ma del poeta siciliano Ottavio Profeta.  
“Se la mia voce morirà  
sulla croce di pietra cittadina  
portatela sulla cima del mio monte  
che s’alza nel vento  
e si corica nella nebbia  
Se la mia voce morirà  
nella mia pianura  
cercatela nel canneto  
nella conchiglie del mare  
e nell’acqua del fiume  
Se la mia voce morirà  
ridatemela viva  
fra gli alberi del bosco  
dove ogni sera  
canta un usignolo”  
Tornando ai bambini di Terezin e degli altri campi di sterminio, è sorprendente constatare la consonanza della poesia con la natura del fanciullo, il gusto estetico essenzialmente contenutistico, che non disdegna l’aspetto formale, le continue trasfigurazioni in immagini semplici e profonde. L’età evolutiva rivaluta il suo copioso scrigno di sogni. di intuizioni, di amore. Nel caso dei ragazzi di Terezin, il realismo è esaltato dalla virtù della speranza. Di fronte al bivio del “day after”, la storia e la poesia ripropongono la missione millenaria dell’umanità che si può sintetizzare in pochi versi: 
“…..e la speranza libera dalla gabbia  
colorerà la nebbia delle ore”.  
Questa pubblicazione, voluta dalla Comunità Montana nell’ampio quadro delle celebrazioni del cinquantenario della Resistenza, è indirizzata, in particolare, verso i ragazzi affinchè il ricordo dei loro coetanei che si aggiravano come passere bianche tra i fili spinati dei campi di prigionia, non sia dimenticato. Siamo di fronte alla tragedia di una adolescenza senza dimensione che va vista come un bozzolo di sole spento da uomini in delirio. 
L’olocausto dei ragazzi polverizzati nelle camere a gas, fu forse segno d’incantesimo, di cenere che s’innalzò come un vortice sulla notte di una civiltà calpestata. 
Ognuno di noi deve finalmente capire che l’innocente battito d’ali e il solco di terra che “annegava” tenerezza di ossa, appartiene all’umanità tutta come un monito tremendo. 
«…..non è più tempo amico  
di trascinare uomini col giogo  
sui «Golgota» affamati di croci  
Non è più tempo delle gioie  
né di rimembranze serene  
se capisci che affondi i piedi  
sul sangue degli innocenti  
Resta coi bambini di Terezin  
e vedrai che dopo la lunga notte  
i licheni tenaci della libertà  
chiuderanno le crepe profonde  
delle nostre coscienze stanche»  
 

 



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