Al di là dei fattori specifici ad ogni paese, Moody’s giustifica la propria decisione con tre insiemi di ragioni:
- The uncertainty over (i) the euro area's prospects for institutional reform of its fiscal and economic framework and (ii) the resources that will be made available to deal with the crisis.
- Europe's increasingly weak macroeconomic prospects, which threaten the implementation of domestic austerity programmes and the structural reforms that are needed to promote competitiveness.
- The impact that Moody's believes these factors will continue to have on market confidence, which is likely to remain fragile, with a high potential for further shocks to funding conditions for stressed sovereigns and banks.
La preoccupazione principale di Moody’s dunque è legata all’incapacità delle autorità europee di mettere in atto le riforme di governance economica capaci di dare certezze ai mercati, e di far ripartire l’economia europea. Che queste preoccupazioni fossero la base portante dei downgrade da parte di Standard & Poor’s era però chiaro già alcune settimane fa (si veda in proposito la precedente analisi su Aspenia online). Con tempismo quasi cinematografico, Eurostat ha il giorno dopo mostrato la fondatezza delle preoccupazioni di Moody’s, certificando che l’economia della zona euro si è contratta nel quarto trimestre 2011; di fatto, una situazione di pre-recessione. E’ opportuno ricordare che una recessione è tecnicamente definita da due trimestri consecutivi di crescita negativa, ma ci sono poche speranze che nel primo trimestre del 2012 ci siano buone notizie).
Eppure, il Consiglio europeo del 30 gennaio ha approvato una riforma, fortemente voluta dalla Germania, che sembra poter affrontare di petto il problema del debito sovrano. Cosa, in quella riforma, non convince Moody’s (e S&P)? Perché si parla ancora di “incertezza sulle prospettive della riforma del sistema fiscale ed economico dell’eurozona”? Evidentemente, il “fiscal compact”, presentatoci come la salvifica soluzione per tutti i nostri malanni, non è percepito dai mercati (di cui le agenzie di rating sono in qualche modo portavoce) come credibile. Si possono individuare due ragioni per questo. La prima di ordine economico, la seconda di ordine più generale
Dal punto di vista economico, l’obbligo di pareggio di bilancio (in media lungo la durata del ciclo) ha poche giustificazioni. In sostanza, infatti, questo equivale ad imporre un sentiero decrescente del rapporto tra debito e PIL (fino a raggiungere lo zero). In effetti, se il debito non aumenta mentre il reddito nominale cresce (a causa di inflazione, produttività, l'aumento della forza lavoro, ecc), il rapporto tra i due si ridurrà nel corso del tempo, fino ad annullarsi. Quale regola di buona gestione, per una famiglia o per un impresa, obbligherebbe a finanziare tutte le spese, comprese quelle per beni durevoli ed investimenti, con il proprio reddito corrente? Ebbene, è proprio questo che si vuole oggi imporre ai paesi della zona Euro...
Anche volendo prescindere dalla inconsistenza teorica del “fiscal compact”, ci può porre il problema del suo statuto giuridico. Di fatto, il “compact” è un trattato che impegna solo i paesi firmatari, ma che implica istituzioni europee. Questo crea un inestricabile groviglio di legislazioni primarie e secondarie (come ha notato Giovanni Boggero su Aspenia online) che, si può star certi, non semplificherà le già troppo bizantine procedure europee. È probabilmente questo miscuglio di regole bizantine, ortodossia, e dubbia efficacia economica, che oggi preoccupa mercati ed agenzie di notazione, alimentando un clima di grande incertezza.
Il “fiscal compact” vuole dare forza costituzionale ad una regola che di fatto esisteva già nel Patto di Stabilità e Crescita; prima di proseguire lungo questa strada, i nostri leader dovrebbero probabilmente chiedersi per quale motivo il Patto di Stabilità è di fatto rimasto inapplicato fino ad oggi. fonte