Il focus USA dall’Atlantico all’Asia-Pacifico: la Cina nel mirino

Creato il 26 aprile 2013 da Geopoliticarivista @GeopoliticaR

Alla fine del secondo conflitto mondiale Stati Uniti e Unione Sovietica, gli unici veri vincitori della guerra, si proponevano come guide di un sistema alternativo e rivale. Nonostante la sfida fosse globale, inizialmente era l’Europa il vero oggetto del contendere. Gli Stati Uniti compresero che per limitare l’Unione Sovietica era necessario riorganizzare quella parte del mondo in funzione antisovietica concentrando le proprie risorse economico-militari a discapito di altre regioni del mondo. Tra le fila nordamericane alcune autorevoli voci contestavano questa linea, tra cui il generale MacArthur che richiedeva un maggiore impegno in Asia Orientale. Quando nel 1949 in Cina si affermarono le forze comuniste guidate da Mao Zedong ai danni delle forze nazionaliste appoggiate dagli USA, furono durissime le critiche repubblicane all’amministrazione democratica di Truman accusata di aver perduto la Cina. Tuttavia, gli Stati Uniti avevano chiaro che un’Europa immiserita era alla mercé del comunismo e quindi era fondamentale porre le basi per includerla saldamente nel sistema nordamericano. Il piano Marshall e il Patto Atlantico-NATO furono gli strumenti che consentirono la stabilizzazione dell’Europa Occidentale. Assicurata l’Europa Occidentale, gli USA operarono per accerchiare globalmente e contenere l’Unione Sovietica nei suoi confini anche se il focus geopolitico continuava ad essere l’Europa. Dopo il crollo dell’URSS, veniva a mancare la superpotenza che poteva rivaleggiare con gli Stati Uniti. Il sistema post-Unione Sovietica si è trasformato in un sistema unipolare che tuttavia gli USA non sono riusciti a gestire, anche per l’ascesa di nuovi protagonisti sulla scena internazionale che hanno contribuito a frammentarlo.

La crisi economica globale del 2008-2009 ha concorso a modificare ulteriormente il panorama internazionale indebolendo la posizione dell’Unione Europea e confermando la consistenza dell’ascesa della Cina. Tali modifiche hanno portato gli Stati Uniti a riconsiderare le proprie priorità: la Cina e di conseguenza tutta l’Asia Orientale e le regioni limitrofe hanno acquisito la preminenza nella strategia statunitense. Alcuni aspetti chiave della strategia geopolitica nordamericana in quest’area potrebbero richiamare l’epoca della guerra fredda. Inoltre bisogna considerare che né l’URSS all’epoca aveva né la Cina oggi ha lo stesso potenziale economico-militare degli Stati Uniti. Se durante la guerra fredda l’Unione Sovietica poteva far leva sul suo potenziale nucleare e missilistico, la Cina attuale può sfoggiare una crescita impetuosa e una grande fetta del debito pubblico nordamericano. Ed è proprio il fattore economico, che mancava all’URSS, congiunto con l’interdipendenza delle rispettive economie e con la crescita quantitativa e qualitativa delle forze militari cinesi a far della Cina un avversario potenzialmente minaccioso per la leadership globale nordamericana.

Il cambiamento di strategia americana è ufficialmente avvenuto con il discorso del presidente Obama al parlamento australiano del 17 novembre 20111, che è stato subito ribattezzato Obama doctrine. In uno dei passaggi del suo discorso il presidente nordamericano ha dichiarato:

With most of the world’s nuclear power and some half of humanity, Asia will largely define whether the century ahead will be marked by conflict or cooperation… As President, I have, therefore, made a deliberate and strategic decision — as a Pacific nation, the United States will play a larger and long-term role in shaping this region and its future … I have directed my national security team to make our presence and mission in the Asia Pacific a top priority … As we plan and budget for the future, we will allocate the resources necessary to maintain our strong military presence in this region. We will preserve our unique ability to project power and deter threats to peace … Our enduring interests in the region demand our enduring presence in the region.
Our enduring interests in the region demand our enduring presence in the region. The United States is a Pacific power, and we are here to stay. Indeed, we are already modernizing America’s defense posture across the Asia Pacific. It will be more broadly distributed — maintaining our strong presence in Japan and the Korean Peninsula, while enhancing our presence in Southeast Asia. Our posture will be more flexible — with new capabilities to ensure that our forces can operate freely. And our posture will be more sustainable, by helping allies and partners build their capacity, with more training and exercises.

La semplice definizione degli Stati Uniti d’America coma una nazione del Pacifico rende netto il distacco e l’allontanamento dalla regione atlantica e dall’Europa2. L’Asia-Pacifico è perciò la nuova priorità nordamericana su cui far confluire le risorse economico-militari. Il presidente dedica una piccola parte del discorso anche alla Cina dove dichiara di auspicarsi the rise of a peaceful and prosperous China. Nonostante la dichiarata volontà di collaborare con Pechino, alcune scelte vanno già nella direzione di accerchiare ed isolare la Cina nella sua stessa regione. La strategia nordamericana di focalizzazione sull’Asia Orientale può essere scomposta in tre componenti: la componente militare, la componente delle alleanze e quella economica.

Nel documento del 2012 del Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti, Sustaining US Global Leadership: Priorities for 21st Century Defense, seguendo le linee-guida della strategia dettata dal presidente Obama, viene ribadito che gli interessi economici e di sicurezza degli USA sono inestricabilmente legati allo sviluppo della regione che si estende dal Pacifico occidentale fino all’Asia Orientale, all’Oceano Indiano e all’Asia Meridionale, e perciò vi è la necessità degli USA di rebalance toward the Asia-Pacific. A tal proposito la Cina è considerata come un elemento fondamentale per gli interessi economici e di sicurezza degli USA nella regione e, di conseguenza, è necessario che la crescita del potenziale militare cinese sia accompagnata da esplicite strategie di Pechino per evitare il sorgere di frizioni nell’area dell’Asia-Pacifico. Nel rapporto annuale del Pentagono al Congresso degli Stati Uniti, Military and Security Developments Involving the Peopole’s Republic of China 2012, viene presentata un’analisi delle strategie cinesi e della crescita del suo potenziale militare. Il rapporto afferma che i dirigenti cinesi intravedono nell’attuale scenario geopolitico “finestre di opportunità” di cui approfittare.

Per raggiungere i suoi obiettivi strategici la Cina persegue due strade complementari. La prima consiste in quella che Pechino chiama peaceful development path, ossia la costruzione di relazioni internazionali positive con i vicini. La seconda consiste nel perseguire un programma di modernizzazione delle sue forze militare per combattere e vincere local wars under conditions of informatization, dove per guerra locale si deve intendere guerra regionale. Il governo di Pechino ha annunciato, nel marzo 2012, un aumento dell’11,2% del suo budget militare annuale per un valore complessivo di circa $106 miliardi. I settori militari che stanno usufruendo dei maggiori investimenti sono quello aereo, dove in particolare si sta investendo nella tecnologia stealth3; quello navale, attraverso la modernizzazione di portaerei e sottomarini per assicurare il controllo dello Stretto di Taiwan e del Mar Cinese Meridionale e una stabile presenza nell’Oceano Indiano e nell’Oceano Pacifico; il settore missilistico, dove si stanno modernizzando i missili a breve e medio raggio – inoltre per il 2015 si prevede che la Cina disporrà di addizionali missili intercontinentali (ICBM) DF-31A (CSS-10 Mod 2) e di migliorati missili ICBM DF-5 (CSS-4)4; il settore delle forze convenzionali di terra e infine il settore del sistema di difesa C4ISR5.

Di fronte all’ascesa militare della Cina, gli Stati Uniti hanno intrapreso due strade. La prima è quella della collaborazione militare, la seconda quella del confronto militare. Durante il 2011 ci sono state molte visite bilaterali ad alto livello nell’ambito delle loro relazioni militari, tra cui l’incontro tra il presidente statunitense Barack Obama e quello cinese Hu Jintao durante il quale hanno riaffermato il loro impegno alla costruzione di una relazione positiva, cooperativa e globale. Il rapporto del Pentagono sottolinea che una forte relazione bilaterale include una sana, stabile e continua relazione militare che a sua volta consiste di una chiara comunicazione tra i vertici militari e i ministri della Difesa e scambi sostanziali su questioni sulla sicurezza e difesa, particolarmente durante i periodi di crisi. Secondo il Ministero della Difesa questi legami avrebbero l’effetto di migliorare la sicurezza del personale militare americano e cinese, di predisporre meccanismi per la prevenzione e la gestione della crisi e contribuire perciò a una maggiore trasparenza tra le due parti. Tuttavia, il Pentagono ha preparato anche una strategia per contrastare l’ascesa militare della Cina denominata Air Sea Battle. La denominazione della strategia non può non richiamare la Air Land Battle, ossia la dottrina militare dell’esercito degli Stati Uniti in Europa che consisteva nel coordinamento tra le forze di terra e le forze aeree per contrastare le forze sovietiche se avessero invaso l’Europa Occidentale.

Andrew Krepinevich, presidente del Center for Strategic and Budgetary Assessment (CSBA), tuttavia, sottolinea che la strategia Air Sea Battle non deve essere interpretata come la volontà di una guerra contro la Cina o di far arretrare (roll back) l’influenza cinese dal Pacifico Occidentale; essa invece deve essere considerata come una “strategia di riequilibrio” per riaffermare l’impegno americano in un’area vitale per i suoi interessi. La strategia Air Sea Battle si basa su operazioni coordinate tra le forze aeree e navali statunitensi ed è costituita da due distinte fasi. La prima fase, all’inizio delle ostilità, include 4 distinte linee di operazioni: i) resistere all’attacco iniziale e limitare i danni alle basi americane e degli alleati; ii) eseguire una blinding campaign contro i networks di battaglia dell’Esercito Popolare di Liberazione (PLA – People’s Liberation Army); iii) eseguire una campagna di soppressione contro i sistemi di attacco a lungo raggio della PLA; iv) prendere e sostenere l’iniziativa nell’aria, nel mare, nello spazio e nei domini informatici. Nella seconda fase devono essere messe in atto le operazioni successive che contribuiscano a risolvere un conflitto prolungato in termini favorevoli e ribaltare tutti gli iniziali successi militari degli avversari6. La strategia si basa su alcuni presupposti critici, tra cui: l’iniziativa delle ostilità non sarà presa dagli Stati Uniti, un accordo tacito per non ricorrere all’uso o alla minaccia delle armi nucleari e il ruolo attivo degli alleati americani Giappone e Australia.

Quindi, un aspetto cruciale della strategia americana consiste nel rafforzare la sua rete di alleanze nella regione dell’Asia-Pacifico. Gli USA possono far affidamento in tale area su un gruppo di Paesi con cui intrattengono solide e durevoli relazioni, anche dal punto di vista militare-strategico, che sono Giappone, Corea del Sud, Australia e le Filippine. Il Giappone ha iniziato nel 2011 un programma di armamento per fronteggiare la percepita crescente minaccia dell’ascesa della Cina, con la quale sono sempre più frequenti e intense le dispute sulla sovranità sulle isole Senkaku/Diaoyu. Il comando giapponese ha esortato il proprio governo a presentare una petizione agli Stati Uniti per consentire la vendita dei caccia F-22A Raptor, attualmente illegale in base al diritto statunitense. Inoltre la base militare americana a Okinawa viene ristrutturata come maggiore centro per la proiezione della potenza bellica statunitense verso la Cina. A partire dal 2010 ci sono stati oltre 35.000 militari statunitensi stazionati in Giappone e altri 5.500 civili che vi lavorano per conto del Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti. Inoltre la Settima Flotta americana è ormeggiata nel porto di Yokosuka, la Third Marine Expeditionary Force a Okinawa e caccia USAF stazionano nelle basi di aeree di Misawa e Kadena7. La Corea del Sud ha una solida alleanza militare con gli USA a partire dal 1953, anno dell’armistizio nella guerra di Corea8. La solidità dell’alleanza è ben raffigurata dalla definizione che le viene attribuita, ossia di una relationship forged in blood. In occasione del 60° anniversario dello scoppio della guerra di Corea, i ministri della Difesa sudcoreano e americano hanno ribadito il loro impegno congiunto nel garantire pace e stabilità non solo nella penisola coreana ma in tutto il Nordest asiatico. Le forze americane in Corea del Sud comprendono la Eighth US Army, la Seventh Air Force e la US Naval Forces Korea. Inoltre vi sono più di 85 installazioni attive e circa 37.500 militari americani sul territorio della Corea del Sud.

L’alleanza con l’Australia è da sempre considerata centrale dagli USA per il mantenimento della stabilità della regione Asia-Pacifico. Basata sul trattato ANZUS, è stata rafforzata con gli accordi di Perth del 2012, che hanno incrementato il livello di cooperazione e stabilito la riallocazione di un sistema radar americano C-Band da un struttura della Air Force ad Antigua all’Australia occidentale9. Inoltre 2.500 marines saranno dislocati a Darwin, un territorio dell’Australia Settentrionale e le due parti stanno portando avanti colloqui per l’installazione di droni a lungo raggio sulle isole Cocos, un territorio australiano nell’Oceano Indiano. Durante il terzo Bilateral Strategic Dialogue tra USA e Filippine, svoltosi nel dicembre 2012 a Manila, gli Stati Uniti hanno riaffermato il loro impegno al trattato di difesa reciproca del 1951 e insieme alle Filippine hanno concordato di espandere la cooperazione in materia di sicurezza marittima, di risposta ai disastri, law enforcement, sicurezza informatica e non proliferazione. Saranno inoltre intensificate le esercitazioni militari congiunte molto gradite al governo filippino viste le recenti tensioni con la Cina sulle reciproche rivendicazioni marittime. Gli Stati Uniti, inoltre, stanno cooptando nella loro rete di alleanze strategiche nell’Asia-Pacifico anche India e Vietnam.

L’India è stata sempre piuttosto equidistante dagli Stati Uniti ma la rapida ascesa della Cina le ha imposto una politica più attenta verso la politica militare di Pechino soprattutto dopo le forti manifestazioni di interesse verso l’Oceano Indiano. In questo contesto è maturata una maggiore cooperazione militare con gli USA, che concerne la produzione congiunta di materiale di difesa ad alto contenuto tecnologico ed esercitazioni militari congiunte nell’Oceano Indiano. Tra gli Americani sono state molte le voci a sostegno di questa collaborazione, come quella del Vice Segretario della Difesa Ashton Carter che, nell’agosto 2012, ha dichiarato che anche l’India è una componente chiave della politica statunitense di riequilibrio verso l’Asia-Pacifico e che può contribuire alla prosperità e sicurezza nel XXI secolo. Il riavvicinamento al Vietnam, che ha un profondo significato per la politica americana, è avvenuto grazie al sostegno statunitense alla sua economia ma anche alle sue rivendicazioni territoriali sulle isole Spratly e Paracel, situate nel Mare Cinese Meridionale, che sono rivendicate anche dalla Cina. Nel luglio 2012 il Parlamento vietnamita ha approvato la legge di demarcazione dei propri confini che include anche le isole Spratly e Paracel. L’anno precedente era iniziata la cooperazione militare con gli USA, che include anche esercitazioni militari congiunte. All’intelaiatura americana, per contro, non corrisponde una iniziativa cinese. La Cina infatti si trova in un pantano diplomatico-strategico, visto che la sua incontrastata ascesa spinge suoi potenziali alleati sempre più verso gli Stati Uniti mentre i suoi alleati nell’area, Corea del Nord e Myanmar, sono fonte di tensioni da cui non trae vantaggi.

A completamento della strategia statunitense vi è l’obiettivo di rafforzare i legami economici con i Paesi dell’Asia-Pacifico. Lo strumento per tale fine dovrebbe essere il Trans-Pacific Partnership (TPP), un accordo di libero scambio attualmente in fase di negoziato tra nove Paesi: Australia, Brunei, Cile, Canada, Malesia, Messico, Nuova Zelanda, Perù, Singapore, Stati Uniti e Vietnam. Hanno manifestato il proprio interesse all’accordo anche Canada, Giappone, Corea del Sud, Taiwan, Tailandia, Filippine, Cambogia, Laos e Costa Rica. L’obiettivo del TPP è di ridurre le barriere commerciali e stabilire una serie di alti standard comuni che favoriscano la trasparenza e supportino l’integrazione economica tra i suoi membri La Cina ha percepito questo progetto di area di libero scambio, dal quale per il momento è esclusa, come un ostacolo ai propri progetti di integrazione della regione dell’Asia Orientale. Il TPP diviene un forte strumento di pressione sull’economia cinese perché i suoi diretti concorrenti, Vietnam e Malesia, ne fanno parte. Perciò nell’eventualità di una conclusione positiva dell’accordo questi due Paesi avrebbero libero accesso al mercato americano e di conseguenza le multinazionali prenderebbero in considerazione l’opportunità di spostarsi dalla Cina in questi due Paesi, comportando di fatto una diminuzione dell’afflusso di investimenti esteri. Quindi nel caso in cui la Cina decidesse di avanzare la propria candidatura gli USA si troverebbero a trattare da una posizione di forza per chiedere riforme all’economia cinese in senso a loro favorevole.

L’incontenibile ascesa della Cina sta alterando gli equilibri globali. Il mondo delle relazioni internazionali e geopolitiche si sta riassestando e gli Stati Uniti non si faranno trovare impreparati. Consapevoli della fase di declino che l’Europa sta attraversando, gli Stati Uniti stanno iniziando a spostare le risorse verso la regione Asia-Pacifico, intorno alla Cina. Tuttavia, nonostante alcune misure prese dagli USA possano richiamare le strategie adottate per sconfiggere l’Unione Sovietica, è da escludere che gli USA progettino una nuova guerra fredda contro la Cina. Infatti vi sono delle differenze sostanziali tra i due periodi. Innanzitutto gli Stati Uniti, sebbene siano ancora la prima economia del mondo, non hanno lo stesso potere contrattuale, vi sono gli interessi di enti internazionali privati come le multinazionali da tenere in considerazione e soprattutto il mondo è passato da un sistema bipolare a uno multipolare in cui è improbabile una sua polarizzazione. Nonostante i vicini della Cina stiano prendendo delle contromisure, le economie asiatiche sono troppo integrate con quella cinese per auspicare uno scontro. La probabilità che gli USA decidano di contrastarla da soli è bassa perché un conflitto diretto avrebbe innanzitutto effetti negativi sulla sua economia e oltre a ciò l’opinione pubblica internazionale difficilmente accetterebbe un atteggiamento aggressivo da parte statunitense. Quindi le sue azioni potrebbero essere interpretate come un rafforzamento delle proprie posizioni per poter trattare in futuro da una posizione di forza.


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