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Per quel gioco di specchi e di rimandi di cui il cinema si fa spesso –inconsapevole - portatore capita che in poco meno di un mese sugli schermi delle sale italiane la Moschea blu di Istanbul, una delle più belle e conosciute dal pubblico occidentale diventi il crocevia dei destini di due biografie cinematografiche, altrettanto diverse, ma egualmente legate dall’urgenza di un’umanità attraversata dal bisogno di definire la propria collocazione rispetto al mondo circostante. Ma se in “Miele” di Valeria Golino il tempio islamico rappresentava il luogo dell’anima scelto dalla giovane protagonista per celebrare il ritorno alla vita dopo lunga e dolorosa afflizione, nel caso di “Il fondamentalista riluttante” di Mira Nair, la chiesa mussulmana, con le sue valenze culturali e religiose diventa testimone di una svolta esistenziale egualmente sofferta, ma valutabile solamente alla luce dello sconvolgimento epocale determinato dalla tragedia dell’11 settembre, e dallo scontro di civiltà che ne è conseguito. Una scelta non casuale quella della capitale turca, da sempre punto di contatto, geografico e culturale tra oriente ed occidente, ed in questo caso chiamata a rendere sul piano fisico e materiale il conflitto di Changez Khan, giovane pakistano diviso tra la nostalgia per la tradizione ed i valori della terra natia a cui ha rinunciato per volare negli Stati Uniti, e New York, la città di un sogno americano che equivale ad una carriera lavorativa remunerata e di prestigio, ed al legame sentimentale con una ragazza dell’alta borghesia. Elementi di una felicità più apparente che reale, i segni del successo di Changez si trasformeranno contraddizioni insostenibili quando, all’indomani nell’11 settembre, il ragazzo constaterà sulla propria pelle le conseguenze dell’ignoranza e della paura.
Versione filmata dell’omonimo romanzo di Mohsin Hamid, “Il fondamentalista riluttante” ha il merito di analizzare la tragedia del nostro tempo con una prospettiva e da un punto di vista bipartisan, almeno per quello che è possibile ad una regista indiana ma cosmopolita come Mira Nair, abituata da sempre ad un cinema meticcio che arriva ad esserlo non solo per la prevalenza di personaggi sradicati ed amori melting pot (“Missisipi Masala”, 1991 e “La famiglia Perez”, 1995), ma anche di scelte low and high sia in termini produttivi che contenutistici. Destinato ad un pubblico internazionale il film della Nair è di quelli che fanno proseliti tra chi sullo schermo ama ritrovare più certezze che sorprese. In questo senso “Il fondamentalista riluttante” ne fornisce a piene mani con gli americani cinici e spietati a far la parte dei cattivi – anche la fidanzata del protagonista per quanto differente, non mancherà di deludere le aspettative del protagonista— e tutti gli altri destinati al ruolo di buon samaritano. Al contempo però la Nair e la sua storia non dimenticano di rimarcare il fattor comune di una vicenda che nel ristabilire le posizioni di partenza - con Changez tornato all’ovile dopo aver rinnegato lo stile di vita americano in favore di un credo svincolato da qualsiasi ideologismo – sembra pessimista sulle possibilità di dialogo tra le due fazioni, caratterizzate, anche nel migliore dei casi - come avviene per la possibile intesa con Billy (Lied Schrieber) l’agente della Cia che in un drammatico finale chiede a Changez di rivelargli il nascondiglio di un professore americano da poco rapito - da una perenne incomprensione. Elegante fin quasi alla patina, didascalico nella riproduzione del paesaggio, “Il fondamentalista riluttante” appassiona ad intermittenza e soprattutto per merito di Ritz Ahmed nella parte del protagonista, e di Kiefer Sutherland, superlativo in quella di Jim, il boss di Changez, protagonisti all’altezza della parte più interessante del film, quella che ripropone nel rapporto tra discepolo e mentore una dialettica che sembra la versione aggiornata di quella istauratasi tra Gordon Gekko e Bud Fox nel film di Oliver Stone “Wall Street”(1987); E’ in quella fascinazione reciproca ed improvvisa, così come negli sviluppi egualmente repentini che si racchiude il senso della nostra epoca e dell’intero film. Film d’apertura dello scorso festival veneziano “Il fondamentalista riluttante” da la sensazione di voler piacere a tutti i costi. Ed è forse questo il suo limite più grande.
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