Il ricordo è gentiluomo - e per metterti a tuo agio nasconde le tue miserie e riscrive le scene meno riuscite.
Amori lancinanti, vacanze di una vita, primi baci, grandi addii e clamorose dichiarazioni durante il cenone di natale: nelle cantine dei miei lobi frontali si lavora alacremente per farmi credere che in tutti quei momenti io ci fossi col corpo e con la mente, che il mio flusso di coscienza fosse interamente dedicato all'evento in corso.
Ma il presente è distratto e ci vuole del tempo per ridargli credibilità, senso, intenzione.
Una delle poche eccezioni a questa colossale opera di ricostruzione del vissuto (o forse un secondo livello di ricostruzione che ama presentarsi come eccezione), uno tra i pochi luoghi che associo a improvvise e consapevoli intuizioni di compiutezza dell'esistenza è per me il parco Forlanini.
Se la felicità è mai durata più di un attimo, lì è dove sono riuscito a trattenerla più a lungo - come chi si sveglia presto in montagna per vedere i caprioli e un giorno ne incontra uno che non scappa al primo rumore.
Il parco Forlanini è a Milano est e si estende tra l'omonimo viale, mostruosa arteria di traffico che provvede giornalmente all'inserimento di tot veicoli nell'area urbana, e via Corelli, amena stradina tristemente nota per aver dato indirizzo al C.P.T.
Nell'area compresa tra queste due grigie rette, di certo nulla di indiscutibilmente bello vi può trovare spazio e ossigeno.
Il parco Forlanini è infatti discutibilmente bello - a volte addirittura discutibilmente bellissimo.
Parte della sua discutibile bellezza la ricava prima di tutto dall'onestà.
Ci sono parchi cittadini capaci di nasconderti le case e gli uomini, e di farti credere per lunghi quarti d'ora di essere altrove (il Tiergarten di Berlino, il Central Park di New York, lo stesso Parco Lambro a Milano).
Mentono grazie a grossi rami fogliosi che coprono le quinte, ti incoraggiano progetti bucolici o peggio penosi jogging contro il senso di colpa. Il Forlanini non ci prova neppure: vasti prati mai abbastanza piani da poterci far progetti sono divisi da piccoli canali che è ragionevole presumere zeppi di ratti enormi, sparute collinette si nascondono sotto alberi che sembrano piantati vicini per nascondere qualcosa di brutto, sullo sfondo gli aerei che partono da Linate, le macchine che scappano da Linate e la percezione abbastanza chiara che a Milano l'orizzonte sia un affare sporco.
Ci si entra da dove si vuole perché non ha cancelli né staccionate, ma destino ha voluto che strutture dal senso dubbio ne limitino il perimetro: una sorta di gigantesco minigolf che pare costruito in seguito a un periodo di grande hype del minigolf (che non c'è però mai stato), una sorta di canile dove allevano e stordiscono i cani che mi abbaiano contro quando ho la droga in tasca, una sorta di laghetto dove da piccolo ammiravo i nerd che provavano i motoscafi radiocomandati, un campo di baseball che credo faccia coppia a gara col minigolf nella categoria sport che in italia nessuno si caga.
La sua discutibile bellezza non ha, a onor del vero, molti altri highlights.
Si potrebbero citare i granitari vintage che raschiano giganteschi blocchi di ghiaccio per affondarli poi in sciroppi di pessime marche o le cascine di grande interesse storico che ho scoperto essere tali solo da wikipedia (per anni le ho credute rifugio ultimo dei ratti enormi di cui sopra), ma sarebbe come cercare di vendere un gameboy a un dodicenne di oggi.
La verità è che mi sembra di ricordare che quindici anni fa, quando ci si giocava a calcio con gli zaini a far da palo e il tramonto a chiudere le partite, tutto dentro e attorno a me fosse più ragionevole.
La malinconia c'era già ma non aveva oggetto, era come un primo rudimentale accorgersi del tempo.
Si tornava a casa stanchi e io di solito pieno di lividi, immaginandoci la vita che ci aspettava più o meno simile - solo con più sesso, più soldi e forse dei pali veri al posto degli zaini.
Quelli coi pali veri li vedevamo due pratoni più in là: ventidue omoni in pettorina, età variabile tra i venti e i sessanta, che ogni sabato alle 13 si davano appuntamento per costruire porte, decidere squadre, discutere del sabato prima, giurarsi vendetta, provarsi i parastinchi, fare commenti sulle proprie pancette o pancione.
Giocai con loro più volte, rischiando le gambe e sbracciandomi per ricevere palla su un campo che pareva immenso già dopo il primo scatto. Capii abbastanza presto che non avevano soldi, che il sesso non era certo un capitolo felice delle loro esistenze e che tutto sommato non ci voleva molto a procurarsi dei pali veri.
Poi cominciò il liceo e la gente smise abbastanza in fretta di voler sudare a pomeriggio.
Con pochi superstiti si inscenarono ancora per diversi anni tentativi di rallentare tutto quello che stava succedendo alle nostre vite. Con risultati alterni, si continuò a sudare e a credere importante buttare la palla tra due zaini che venivano continuamente spostati e messi al centro di inutili discussioni sulle possibilità teoriche di rimpallo della sfera casomai avessero d'improvviso assunto la forma di veri pali.
Nessuno cercava di fregare l'altro più di tanto, e intorno il parco pure non cercava di fregarci - lasciando sentire le macchine in sottofondo e gli aerei partire per posti in cui una volta si andava a piedi.
Quando ho il cuore pieno di paesaggi e sospiri da manuale, ci torno per ricordarmi di essere sempre stato così.
L'ultima volta ci ho trovato il buio che scendeva, quelli con le porte vere che le smontavano dopo l'ennesimo tentativo di non far cambiare mai nulla e della gente che per essere arrivata fin lì di certo doveva avere un buon motivo.
Forse quello di incontrare finalmente un ratto enorme, che in realtà io lì non ho mai incontrato di persona.
Se fosse successo, forse saremmo cresciuti tutti con meno malinconia.
Magazine Italia
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