Da che si sono sviluppate società e governi basati sul consenso popolare (a prescindere che sia chiaramente maggioritario e totalmente libero e democratico) è diventato centrale l’utilizzo della comunicazione audiovisuale a fini politici. I soggetti politici, governativi o rivoluzionari, hanno usato come meglio hanno potuto le potenzialità di comunicazione che la società e la tecnologia offrivano. Ne era consapevole il fondatore del fascismo che definì il cinema la più formidabile arma da guerra, ne convenne il suo alleato tedesco che offrì uno smisurato sostegno alla regista Leni Riefenstahl per diffondere un’idea egemone della superiorità della razza ariana e del potere nazista. Sebbene con esiti meno spettacolari, anche il potere sovietico utilizzò il cinema per proporre il suo ideale di società pacifica, forte e progressiva. Molto più raffinata la strategia statunitense che, pur attraverso gli eccessi del maccartismo, è riuscita ad imporre il proprio sguardo sulla società a tutti i paesi che gravitano nella sua orbita geopolitica.
La diffusione di tecnologie a basso costo ha reso disponibile le potenzialità comunicative dell’immagine in movimento anche a soggetti di carattere rivoluzionario che spesso si son dati la finalità non di tranquillizzare ed affascinare ma quella opposta di instillare nella società una sensazione di terrore che avrebbe dovuto avere il compito di annichilire le velleità di reazione dei propri avversari. Si pensi al video VHS del processo che le BR di Senzani organizzarono contro Roberto Peci nell’estate del 1981 per arrestare il fenomeno del pentitismo. Si trattava di un tentativo ancora maldestro, in cui a tratti l’audio perdeva il sincronismo e il nastro si inceppava e rallentava. Non vi era dietro un’idea di estetica dell’immagine, la videocamera era accesa difronte all’imputato e riprendeva senza filtri un soggetto posto su un banale fondale piatto. L’unica potenza dell’immagine era la sua esistenza e la sua testimonianza, non c’erano riferimenti ad altri immaginari estetici e narrativi, se non forse a quello iper-realistico dell’immagine intesa come verità.
Da quel grado zero le immagini del terrore si sono evolute rapidamente. Già nella prima guerra cecena a metà degli anni ’90, i guerriglieri islamici indipendentisti realizzano un video della decapitazione di un prigioniero russo, in cui l’operatore si intrattiene in inquadrature di ambientamento che descrivono lo scenario in cui avviene l’omicidio, riprende le espressioni irridenti del carnefice e dei suoi complici, quelle di sofferenza della vittima, realizzando una sorta di proclama rispetto alla disumanizzazione del nemico. Da allora non si sono rilevati significativi cambiamenti della strategia comunicazione del terrore, neppure attraverso le fasi della seconda guerra in Iraq o in quella afghana, dove Bin Laden era spesso costretto a recitare i propri proclami su un fondale neutro per il timore di essere rintracciato.
E’ con la nascita dell’ISIS che si assiste ad un vero salto di qualità dell’estetica dell’immagine. Si è spesso sopravvalutata l’aspetto tecnico delle riprese, del montaggio e della grafica utilizzata nei video dell’ISIS. In realtà si tratta di immagini ben curate ma la cui fattezza è nelle disponibilità di qualunque società di service video, anche di piccole dimensioni. La vera novità è la presenza di una nuova riflessione sull’immagine. Chi realizza i video dell’ISIS prende in prestito il format della serialità televisiva e gli stilemi del videogioco e del fumetto. L’ideatore della serie “terror” dell’ISIS ha creato un personaggio principale, il tagliagole John, una struttura definita della puntata che prevede un proclama iniziale, un’esecuzione rituale, con un taglio interno sulle fasi più cruente, e la minaccia di una nuova esecuzione di un ostaggio nella successiva puntata. Quest’ultimo passaggio rappresenta una specie di televoto sulla vita dell’ostaggio, che potrebbe essere salvato se il pubblico convincerà il proprio governo a cedere al ricatto del tagliagole. Ogni personaggio ha una propria divisa ben connotata cromaticamente, i dominatori sono vestiti di nero, i dominati di arancione. Chi domina è in piedi, le vittime sono in ginocchio. Addirittura in uno dei video realizzati in Libia in cui vengono uccisi degli egiziani copti, i militanti dell’ISIS appaiono enormemente più alti delle loro vittime per sottolineare iconicamente il rapporto tra le etnie e le religioni. Probabilmente si è trattato di una manipolazione grafica e chi l’ha realizzata non si è curato dell’eccesso di sproporzione, avendo evidentemente in mente, un immaginario fumettistico o da videogioco che prescinde dalle esigenze di realismo.
Anche per quanto concerne il montaggio si fa ricorso al format seriale che ad inizio puntata prevede una sorta di ricapitolazione delle puntate precedenti, come nel caso del pilota siriano incendiato in una gabbia, che ad inizio video viene ripreso accanto alle macerie di un palazzo che si presumono essere quelle create dal suo bombardamento in una precedete puntata che non si è vista, una sorta di allusione ad un prequel non ancora trasmesso dal network del terrore che ha un suo nome e un suo logo: Alhayat Media Center. In altre occasioni i video sono costruiti con la struttura del trailer cinematografico e si concludono addirittura con la dicitura “coming soon”.
In sostanza è possibile affermare che la strategia di veicolazione del terrore è passata da un paradigma puramente documentativo dei suoi inizi ad uno spiccatamente narrativo e suggestivo, in cui anche le immagini che documentano ciò che realmente accade (le uccisioni) vengono catapultate, a mo’ di uno snuff movie, nella struttura di un racconto fictional di stampo cinematografico o seriale .
Questa trasformazione comunicativa sembra indicare anche un mutamento del target di riferimento, evidentemente più giovane. In sostanza i terroristi hanno compreso che la battaglia trova il suo piano più rilevante non nella dialettica sul piano della realtà (dove le forze in campo sono nettamente a loro sfavorevoli) ma in quello degli immaginari di suggestione. E scelgono di giocarla tutta dentro l’immaginario occidentale, che conoscono molto bene, sebbene il messaggio sia totalmente antagonista rispetto all’Occidente. Questo è probabilmente il segno che i terroristi islamici sono ben consapevoli di essere enormemente più deboli sul piano militare rispetto al loro avversario e che l’unica chance di vittoria giace nel confronto psicologico tra soggetti simbolizzati da avatar dentro un immaginario in cui gli arancioni perdono rispetto ai neri. A giudicare dai commenti spaventati di molti esperti politici e militari occidentali che mettono in guardia dallo scontro fisico, sembra che per ora la loro strategia comunicativa stia funzionando. Per fortuna i popoli arabi che stanno subendo più direttamente la violenza reale dell’ISIS sanno ben distinguere tra la realtà di un gruppo di tagliagole e la strategia comunicativa del loro copywriter che ha studiato a Londra.
Pasquale D’Aiello