Ennesima delusione, e (purtroppo) ennesima conferma delle mie previsioni. Il clamore accesosi attorno al primo film importante di Michel Hazanavicius, che addirittura aveva suscitato entusiasmi allo scorso Festival di Cannes dove era stato presentato, mi aveva creato aspettative alte (Cannes è la reale vetrina della cinematografia di sostanza). Però qualche dubbio-pregiudizio si intrufolava nella mia mente. Se una pellicola ‘puzza’ talmente tanto di Oscar, allora quasi inevitabilmente (a parte eccelsi momenti creativi che hanno una forza propria capace pure di imporsi e superare il glamour e la macchina commerciale hollywoodiana) è destinata ad essere una media creazione di intrattenimento, con poche reali meraviglie.
Finalmente sono entrata in sala, e col pensiero a sollecitazioni che avevo letto-ascoltato, del tipo (addirittura) “ Si va oltre il cinema muto, con The Artist…”, mi sono immersa nel flusso visivo e narrativo con il massimo propositivismo. Non sono una boicottatrice a prescindere, e realmente desideravo emozionarmi ed accendermi con questo film. Ma non posso che scrivere, a visione ultimata: “Tutto qua?”. Una semplice carezza, che certo non è mai inutile, ma The Artist è realmente una pellicola ‘sempliciotta’ e di un piattezza emotiva sbalorditiva. Non posso certo pretendere da me stessa e da chi va in sala nel 2012 una ‘folgorazione’ per il semplice fatto che un film ‘osa’ raccontare con didascalie ed utilizzando il bianco e nero… Non può bastare questo per ‘esaltarsi’, e le esaltazioni generate da un film siffatto mi gettano decisamente nello sconforto.
Una storia che racchiude il passaggio dal muto al sonoro dentro la metafora della caduta e dell’ascesa di due ‘stelle’ del cinema (George Valentin alias Jean Dujardin, la cd. vecchia guardia, e Peppy Miller alias Bérénice Bejo, la giovane promessa), farcita di un manicheismo e di un didascalismo privo di autentica poesia, neppure arricchito da una gaiezza innocente (Io quei sorrisi, quelle atmosfere le ho già viste in metri di pellicole e anni di film…). Neppure tecnicamente, la magia e la nostalgia per il mondo perduto del cinema muto riescono a farsi vividi e pulsanti. Una fotografia e una modalità di ripresa che nulla hanno aggiunto né hanno tolto al nostro sguardo ormai assuefatto a produzioni in serie. E mentre scorrevano i titoli di coda del film, il mio pensiero si legava a tre visioni del muto così dense, strabilianti anche per un occhio smaliziato come quello contemporaneo, viste in dvd e in una rassegna, un mese fa. Ardentemente avrei desiderato che nelle sale cinematografiche al posto di The Artist, gli occhi del pubblico avessero potuto imbattersi in tali splendide folgorazioni. E sperato che potessero almeno per un momento accendersi veramente.
Il giglio delle tenebre (1927) di Georg Wilhelm Pabst. Pellicola liberamente ispirata al romanzo del 1924 di Il’ja G. Ehrenburg, pur nascendo deviata verso ‘l’artificio’ dell’alta drammatizzazione melodrammatica per volontà degli studios tedeschi dell’UFA, al fine di competere a quei tempi con le produzioni americane e la loro maestosa espansione europea, è dotata tecnicamente e visivamente di un alto modernismo. La vicenda si consuma dentro l’amore di Jeanne Ney (maturata in Crimea, preda della rivoluzione bolscevica) per il giovane rivoluzionario Andreas, e si consacra definitivamente a Parigi. Una storia d’amore naturalmente contrastata da un terzo elemento: il gretto e viscido faccendiere Khalibiev. Non manca neppure la pietas per la cecità di una donna e la sua innocenza, eppure anche in questo film Pabst precorre l’avvento della Neue Sachlichkeit (nuova oggettività), termine altamente stuzzicante. Una delle tre correnti principali del cinema tedesco degli anni Venti, la nuova oggettività nacque come reazione all’Espressionismo.
Il cupo dopoguerra tedesco invogliava anche nel cinema la fine delle illusioni: la necessità di descrivere la realtà nella sua acutezza più profonda, caricandola anche di una componente emotiva esasperata, che tendeva visivamente ad accentuare ed estremizzare la crudezza della verità, sia nella doppiezza che nella purezza dei sentimenti descritti e disvelati. Sin dal piano sequenza iniziale, Pabst scuote la nostra attenzione nel perlustrare con sguardo da ‘vetro della bottiglia’ il reale nei suoi più intimi anfratti, passando dagli oggetti, alla natura, all’uomo, dentro un caleidoscopio, dove il marcio e il corrotto della società si stagliano con certezza di forma che diviene ai nostri occhi sostanza, vibrante anche grazie ad un uso serrato del montaggio (una scena da tre minuti potendo contenere ben 40 inquadrature).
Passando per un ‘blockbuster’ d’autore, l’incredibile Femmine Folli (1922) di Erich von Stroheim. Dramma costosissimo che affronta la decadenza della nobiltà postbellica, la doppiezza morale e la corruzione viscerale, proprie di ogni essere umano, narrate visivamente e narrativamente in maniera esemplare, senza alcuna indulgenza. Non esiste figura totalmente positiva, vittime e carnefici recano in sé il fregio di doppiezza morale, anche se di differente livello e spessore.
Montecarlo, anni ’20: l’aristocratico russo in esilio Wladislaw Sergius Karamzin (lo stesso, formidabile, von Stroheim) vive insieme a due psuedo-cugine in totale lascivia, cercando di trarre sostentamento economico da ogni possibile forma di sfruttamento di situazioni e persone che potrebbero in tal senso rivelarsi convenienti: da un falsario che procura loro soldi (la cui figlia minorata è immediatamente oggetto di morbosa attenzione da parte di Wlasislaw) a un diplomatico americano prossimo all’arrivo in Costa Azzurra, la cui posizione sia politica che economica è oggetto di immediata speculazione dal parte di Wladislaw e delle due donne. L’intento è quello di sedurne la moglie per ottenere denaro e protezione. L’autofagocitazione diverrà inevitabile: la scoperta della truffa, il disvelamento della reale condizione dei tre e una esemplare sconfitta inflitta dalla stessa corruzione che nutre il suo incarnatore-simbolo, ossia Wlasislaw. La pellicola, costosissima, lunghissima (la più lunga della storia del cinema – oltre le 6 ore – tagliata più volte a suon di lotta tra creatore, produttore e censura fino ai classici cento e passa minuti), condensante tutta l’onnipotenza creativa di von Stroheim, tiene costantemente in allerta attenzione e curiosità, per la capacità visiva (corroborata dal magnetismo interpretativo degli attori, specie del suo protagonista) di rivelarci con la sola forza delle immagini (marchiate anche da variazioni del bianco e nero verso il giallo, il blu e il fucscia) e della macchina da presa, la verità sulla nostra essenza. L’estetica su cui poggia è sublime. Godiamo e inorridiamo della spregevolezza del protagonista. La pulsione erotica di Femmine Folli è potentissima: senza rendere alcuna evidenza specifica, il film sprizza di lascivia, corruzione e tentazione dei sensi in ogni frammento.
E giungiamo allo sperimentalismo del modernissimo *L’argent (1928). Ultimo film muto di Marcel L’Herbier, che adattò liberamente l’omonimo romanzo del 1891 di Émile Zola, ‘aggiornandolo’ alla sua contemporaneità (il film uscì alla vigilia del crollo di Wall Street). L’Herbier crea uno straordinario affresco visivo, concentrando narrativamente l’attenzione sul dominio dell’economia, della speculazione finanziaria, che soggioga tutto, dagli individui ai luoghi sfruttati. L’avido banchiere Saccard, in balìa di una imminente bancarotta, si avvinghia in malafede all’aviatore Jacques Hamelin che ha in mente di arrivare in volo fino a Guyana, ricca di petrolio. Da doppiogiochista, Saccard specula sul fallimento della missione (avendo anche di mira la moglie di Hamelin, morbosamente amata). I piani di Saccard andranno irrimediabilmente a vuoto, e la sua ingordigia lo porterà ad una totale caduta.
La storia è completamente al servizio della tecnica visiva. La furia della speculazione finanziaria è espressa da un movimento filmico densissimo, inglobato dentro carrelli, un montaggio corto (mediamente 6 secondi e mezzo per inquadratura) e la frenesia della macchina da presa. Esemplare (e anche innovatore, per quei tempi), il ‘volo’ della gru che si ‘getta’ dall’alto, incombendo sugli operatori di Borsa di Parigi. I singoli attori vengono letteralmente ‘braccati’, sinuosamente risucchiati-inglobati in essa. L’occhio rimane attento, affascinato e impressionato da una visione altamente espressionista-realista, che toglie il fiato per l’approfondimento e l’innovazione che offre.
Di fronte a queste autentiche meraviglie, assolutamente estranee all’omologazione e alla sterilità di uno stantio 3D e/o di una grammatica filmica contemporanea uniforme e livellatrice, che ha rallentato tutte le nostre percezioni e falsato le nostre capacità critiche, l’accendersi per The Artist è il triste segno di una involuzione inevitabile.
Maria Cera
* L’argent, restaurato nel 1975, non è edito in Italia. Può essere facilmente reperito nella versione francese o inglese.
Scritto da Maria Cera il gen 11 2012. Registrato sotto FULL OF GRACE, RUBRICHE, TAXI DRIVERS CONSIGLIA. Puoi seguire la discussione attraverso RSS 2.0. Puoi lasciare un commento o seguire la discussione