Apro la bocca per collocarmi in rapporto ai miei interlocutori. Sputo parole storte.
Dopo anni di rifiuto, ho deciso di accoglierle. Vestigia del dialetto che parlavo da piccola, solo d'estate, e frammenti di lingue che non mi sono mai appartenute.
Sono un funambolo. Nel fendere l'aria suono male.
Apro la bocca per collocarmi. Mi viene detto che sono una persona di un certo tipo, che il mio posizionamento è errato.
Sono forte, impavida e assertiva.
Farei un torto al genere umano e a me stessa se solo mi mostrassi vulnerabile.
Sono un funambolo. Il pubblico trattiene il respiro anticipando lo spettacolo della mia caduta.
Se tengo i piedi ben saldi a terra e le gambe divaricate, il posizionamento è sbagliato.
Se affretto il passo, quando sono sola nella notte e voci ubriache mi invocano rimbombando lungo una via del centro storico, il posizionamento è giusto. O sbagliato.
Il mio rossetto scarlatto, sbavatosi tra una birra e l'altra, è giusto o sbagliato?
Mi è stato insegnato ad avere paura.
Ci sono occasioni in cui la paura lambisce il buon senso. Questa è saggezza matrilineare che sostituisce il mio corredo.
Mi è stato insegnato ad avere paura.
Per anni non ho parlato. "È timida", dicevano. Il posizionamento era giusto.
Ho cominciato a parlare. Mia nonna, che non ha mai smesso di pensare al ventennio fascista e alla vita di fabbrica, ha introdotto una nuova cantilena, mai cessata da allora.
"Il posizionamento è sbagliato".
Chiudi le gambe.
Sèntate ben.
La conservazione della propria incolumità sta nel silenzio, nel passare inosservati.
Ho imparato ad articolare la mia rabbia per iscritto, mettendo da parte le parole storte.
Ho infilato lame nel costato dei miei nemici, ma il posizionamento era sbagliato.
I miei nemici mi hanno chiamata pazza di fronte ad una platea silente. Il posizionamento era giusto.
I miei nemici hanno deriso le vivide parole che avevo riservato loro. "La narrazione diaristica è cosa da ragazzine". Il posizionamento era giusto.
A diciott'anni ero impavida.
In pubblico, se interpellata, sapevo farmi meccanica e feroce. Avevo luci puntate addosso e parlavo di timidezza. Un funambolo.
A ventidue anni la mia narrazione restava confessionale.
"Manca di largo respiro". Il posizionamento era giusto.
"Autobiografica". Ancora giusto.
"È stata esclusa dalla partecipazione a causa della volgarità di alcuni passaggi". Sbagliato.
A ventitré anni, ho chiamato i miei successi fortuna.
Ho scelto il nascondimento, il silenzio. Il posizionamento era giusto.
Lo stesso anno, ho letto una storia identica alla mia.
Ho rivisitato le parole che avevo sparpagliato dietro di me, per cambiarne il senso.
Ho ritrovato il furore. L'ho visto evaporare dai miei scritti e farsi parola storta sulla mia lingua.
Il posizionamento è stato dapprima sbagliato. Poi ci si è abituati a sapermi in quel modo.
Le griglie valutative sono state cambiate per me.
Io sono quella femminista. Il posizionamento non è più così sbagliato. Solo un pochino.
Se mi faccio critica, ora il posizionamento è giusto.
Se piango in pubblico, è sbagliato.
Se alzo la voce, sono orribile, ma nel giusto.
Se sto zitta, sto personificando uno stereotipo passivo.
Se mi mostro vulnerabile usando parole feroci, faccio un torto alla mia categoria.
Se mi mostro vulnerabile usando parole storte, torno ad essere convenzionale, pazza, o entrambe le cose.
Sono un funambolo, e il pubblico trattiene il respiro attendendo la mia caduta.
È tutto ciò riesce a vedere; il fallimento nel posizionarsi.
Ma le mie parole, prima di conficcarvisi tra le costole, sono un corpo sospeso nel vuoto.
(immagine: Untitled di Cindy Sherman)