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Il fuoco greco

Creato il 12 novembre 2013 da Nicolettap

La resistenza di Costantinopoli ai violenti assedi di Avari, Arabi, Bulgari e Russi, fu possibile grazie alle formidabili mura della città, ma anche all’impiego del “fuoco greco”  (in greco ὑγρὸς πῦρ, fuoco liquido), una miscela di petrolio, calce viva, pece, zolfo, salnitro, fosforo e nitrato di potassio che si incendia al semplice contatto con l’acqua. 

Quest’arma fu ottimizzata grazie alla tecnologia bizantina, che ne aumentò di gran lunga  l’efficacia, e a inventarla, o meglio perfezionarla, si dice che sia stato un architetto ebreo di lingua greca, Kallinikos di Eliopoli, che si era trasferito a Costantinopoli tra il 634 e il 638, durante la conquista della Siria da parte degli Arabi.

Il fuoco greco era così prezioso per i Bizantini che la sua formula era un vero e proprio segreto di Stato ed era conosciuta solo dall’imperatore, da Kallinikos e dai suoi discendenti, che ne ebbero anche il monopolio della produzione. Ancora oggi quindi non conosciamo né la composizione esatta né il processo di produzione di questa miscela.

Tuttavia un’arma molto simile era già stata usata dai Persiani e dai Greci.  Tucidide ci racconta che, durante la guerra del Peloponneso, i Beoti, i Corinti e i Megaresi fecero una spedizione contro Delio, assalirono il forte e riuscirono a conquistarlo grazie all’uso di una particolare macchina, così descritta dallo stesso Tucidide:

“Tagliata in due una grossa trave, la svuotarono tutta e la riadattarono come se fosse un flauto. A un’estremità per mezzo di catene vi appesero una caldaia e posero in essa un tubo di ferro che proveniva dalla trave; ed era rinforzato di ferro per gran tratto anche il resto della trave. Coi carri la accostarono alle mura da lontano, là dove esse erano costruite soprattutto con le viti e il legname. Quando la macchina fu vicina, introdotti dei grossi mantici all’estremità della trave dalla parte loro, vi soffiavano. Il soffio, arrivato violentemente alla caldaia piena di carboni ardenti, zolfo e pece, fece sorgere una gran fiamma e dette fuoco al muro, sì che più nessuno poté restarvi, ma dovettero abbandonarlo e darsi alla fuga: in tal modo il muro fu preso”.

(Tucidide, La guerra del Peloponneso, IV, 100, 2-4)

Il fuoco greco poteva essere lanciato a distanza in piccoli recipienti mediante una balista, o versato addosso ai nemici dalle mura della città, ma i Bizantini lo usarono soprattutto nelle battaglie navali:  i sifoni, montati appositamente sulla prua delle navi, permettevano di soffiarlo sulle imbarcazioni nemiche, come i moderni lanciafiamme.

Oltre alla sua grande capacità distruttiva, l’efficacia del fuoco greco risiedeva anche nell’effetto psicologico che esercitava sui nemici, grazie alla sua spettacolarità: la miscela infatti si incendiava appena entrava in contatto con l’acqua provocando una forte esplosione, simile a un tuono. Questo era dovuto a due particolari componenti: la calce viva (o ossido di calcio) e il nitrato di potassio. L’ossido di calcio reagisce con l’acqua formando idrossido di calcio, con una reazione estremamente esotermica, cioè rilasciando molto calore. Questo aumento di calore favorisce la decomposizione del nitrato di potassio, che rilascia ossigeno, alimentando così il fuoco.

Questa arma era talmente efficace che diede ai Bizantini  un vantaggio formidabile sui nemici, che temevano e allo stesso tempo invidiavano il fuoco greco e avrebbero voluto conoscerne la formula; ma il segreto non fu mai svelato per oltre cinquecento anni e il fuoco greco non cadde mai in mani nemiche.


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