Sono stato a Barcelona al #GENsummit, il summit di Global Editors Network, perché Dataninja è stato invitato come media partner. È una manifestazione molto diversa dalle altre alle quali ho partecipato (il Festival del Giornalismo di Perugia, il DataHarvest+ di JournlismFund a Bruxelles, l’European Press Prize a Copenaghen) perché è molto business oriented. Ci sono le startup che cercano di vendere servizi agli editori, i giornalisti/capiredattori che cercano di chiarirsi le idee magari comprando servizi dalle startup, e gli speakers di provenienza molto varia (chi dai giornali, chi dalle startup, chi da altre e ben più interessanti realtà — c’era ad esempio la producer di Serial, il progetto che ha rilanciato enormente i podcast). Quest’anno, a differenza dell’edizione 2014, l’evento era fortemente caratterizzato dalla presenza di Google, che ha mandato una squadra di inviati tra i quali il potentissimo David Drummond. Per fare una sintesi estrema:
- Friedrich Filloux ha detto che le redazioni devono produrre contenuti machine readable, forse la più grande ovvietà che ho sentito negli ultimi tempi. I contenuti online lo sono per definizione, tant’è che la syndacation è possibile da oltre un decennio (pensiamo ai feed rss — info qui e qui). Che il contenuto sia machine readable è cosa peraltro arcinota agli editori/giornalisti, perché è proprio da questa sua caratteristica che si determina il posizionamente sui motori di ricerca.
- Dan Gillmor ha riproposto il suo speech “Perché i giornalisti devono essere (almeno qualche volta) attivisti”, che avevamo già visto a #ijf15. Vecchia anche questa idea: basti pensare a Ryot.org, progetto lanciato nel 2012 da un attivista che aveva fatto una lunga esperienza dopo il terremoto di Haiti. Ma poi, voglio dire, per fare un esempio: i giornalisti antimafia non sono anche attivisti antimafia? Ai miei occhi sì, non credo che esistano da poco tempo. È così in tutto il mondo, da sempre, per temafiche ambientali, pacifiste, etc.etc.
Entrambi — chiedo venia se posso apparire saccente, ma non credo di essere l’unico a pensarla così, anzi! — mi sembrano degni rappresentanti di questa categoria di personaggi in cerca di autore che vagano di questi tempi, facendo della futurologia sul giornalismo un mestiere vero e proprio. Quando sento speech di questo tipo mi domando sempre: ma chi è realmente il target? I giornalisti? Gli editori? Gli organizzatori di eventi?
Andando invece alle cose di sostanza:
- Il Vice president Senior di Google David Drummond ha spiegato un po’ i dettagli del loro progetto per l’assegnazione di 150 milioni di euro a un gruppo di giornali europei (in Italia c’è La Stampa): pare che molta di questa sperimentazione sarà orientata sul mobile. In pratica Google orienterà gli investimenti e userà i giornali come satelliti per fare open innovation. Drummond ha anche detto: «Quello che interessa a noi è l’informazione di qualità». La battaglia quindi pare essere da qui: vincerà Google che indicizza e (ri)pubblica sul proprio motore di ricerca qualsiasi cosa esista sul web, o Facebook che pubblica quello che pubblichiamo noi? Comunque la si veda, è tutta content curation, of course! Rispetto a questo scenario, globale, cosa conta se c’è un giornale un più o uno in meno con i relativi contenuti?
- Il sempreverde Simon Rogers, che dopo avere lasciato il Guardian per passare a Twitter, ha lasciato Twitter per passare a Google come Data Editor. Rogers ha introdotto il nuovo Google Trends — e riproposto i tool Google News Lab — uno strumento che ci mostra insieme quali sono i trend principali delle notizie e al contempo delle ricerche degli utenti. Il suo cursus honorum è esemplare: in meno di due anni è passato da uno dei giornali più quotati del mondo (il Guardian) a quello che oggi è realmente il più grande editore del mondo (Google). Quando si invia il curriculum a un’azienda, credo che si debba tenere conto del percorso che ha fatto lui.
- Il Reuters Institute for Study of Journalism ha presentato il rapporto 2015 (anticipato qui su Datamediahub da Pier Luca Santoro) che dice tante cose interessanti, tra le quali a mio avviso: l’Italia è tra i Paesi in Europa e nel mondo in cui c’è maggiore propensione verso le news pagate (12%), ma è anche tra quelli in cui c’è meno fiducia nell’informazione. C’è chi sta peggio di noi (anzi di voi, editori): ma la gente (noi) si fida poco di quello che legge (screenshot in basso).
- L’ossessione sulle metriche è culminata nella via crucis di talk tenuti dagli uomini Google: ovunque si è parlato di Age of Insigths. Quindi, posto che sulle metriche c’è un dibattito lunghissimo, oserei dire che la favola insegna che se quello che fai è misurabile sei un interlocutore ascoltato. Se non è misurabile, non resta che augurarti buona fortuna, ma altrove. 😉