A distanza di secoli, malgrado la modernizzazione dell’industria e la razionalizzazione del lavoro, la Cina continua a essere ancora oggi luogo di mistero agli occhi del mondo. Oggi però, scenario di leggende e profezie non sono più le grandi dinastie imperiali, il mandarinato o il mistero degli eremi tibetani, bensì la sua economia e il suo futuro.
La Cina appare oggi come un Paese che sfida tutti i freddi calcoli degli economisti del mondo. Un paese che, dopo la morte di Mao, è riuscito nell’impossibile impresa di convertire velocemente l’arretrata industria pesante in una moderna produzione di beni di consumo. Da Paese a economia socialista a economia emergente sulla cresta dell’onda del mercato mondiale.
Al di qua della muraglia, economisti, storici, sociologhi tentano di predire il futuro di questo grande, misterioso Paese.
Le profezie vanno dalle più ottimiste, come quelle di chi guarda a Pechino come Capitale in un mondo multipolare, alle meno rosee.
Fra i pessimisti, si ipotizza invece un rallentamento – se non un arresto – della corsa cinese. Da un lato, c’è chi crede nell’immediata rivoluzione “culturale” dei cinesi; dall’altro, chi vede la “crisi” economica.
I primi sostengono che, il rallentamento dell’economia cinese a causa della recessione euroamericana e del crollo nei consumi, porterà a quella che qualcuno – forse preso dalla frenesia trasognata dei tempi – ha denominato primavera cinese.
Anni fa, Deng Xiaoping, fautore dell’apertura della Cina dopo la morte di Mao, aveva stretto un pericoloso Patto faustiano con i cinesi: supporto in cambio di una crescita costante a ritmo sostenuto. Alla luce dell’attuale situazione globale, però il Governo potrebbe non tener fede all’impegno preso e i cinesi potrebbero decidere di non fornite più quel tacito supporto che finora ha reso i movimenti per i diritti umani solo note fuori dal coro e di scendere nelle piazze.
Dall’altro lato, in contrapposizione allo storicismo lineare di Fukuyama, c’è chi “crede” che la storia, lungi dall’essere un inarrestabile cammino verso la democrazia, sia fatta di numeri, di economie in espansione e recessione. Non è possibile mantenere livelli di crescita costanti. Anzi. La storia dell’economia ci mostra come l’andamento sia sempre a tendenze alterne.
A fronte di un tasso di inflazione in crescita (+5% nel 2011), il Governo di Wen Jiabao ha provveduto a periodici adeguamenti dei salari al carovita degli ultimi anni. Il risultato? l costo del lavoro è cresciuto del 15-20% all’anno. Le multinazionali che hanno localizzato la loro produzione in Cina – allettate da manodopera a basso costo e legislazione permissiva in materia ambientale e giuslavorista – hanno iniziato a valutare la possibilità di delocalizzazione in nuovi paesi in via di sviluppo.
In particolare, candidato ideale sembrerebbe il Bangladesh. Il salario di un lavoratore a Dhaka rappresenta solo il 40% di un salario cinese. Inoltre, in Bangladesh è possibile lavorare fino a 48 ore a settimana – contro le “sole” 40 in Cina – e il Governo ha varato una esenzione fiscale decennale per le imprese che investono nel Paese.
Un’offerta seducente, ma non abbastanza. Il problema nei paesi in via di sviluppo che ancora non possano fregiarsi dell’onorificenza di “economie emergenti” è la mancanza di know how e di supporti logistici adeguati. Tale esodo è oggi un’opzione solo potenziale.
In realtà il piano economico cinese per i prossimi 5 anni prevede non un semplice aumento, bensì il raddoppio del salario minimo cinese (da 1500 dollari attuali a 3000 dollari). Un suicidio? No, se si tiene conto dell’obiettivo del Governo cinese. Wen Jiabao starebbe infatti tentando di convertire l’economia di produzione cinese in un’economia di consumo. Aumentare i salari dei lavoratori significherebbe aumentare il consumo interno e, di conseguenza, attirare investimenti non più finalizzati allo sfruttamento della manodopera a basso costo, bensì volti ad affacciarsi in nuovi mercati finali.
Nel breve termine, sembra che Pechino non debba temere l’esodo dei capitali stranieri in quanto la Cina si distingue dai paesi in via di sviluppo per know how e dotazione logistica, dai paesi occidentali per i bassi costi di produzione. Ad oggi, non esiste un’altra Cina. E come Dong Tao, economista presso Credit Suisse, ha dichiarato:
There is no developing country that can match half the efficiency China offers.
Il futuro della Cina, e insieme a esso, quello dell’economia mondiale resta imprevedibile. Le profezie sull’Oriente restano ineguagliabili per numero e fantasia. Se i Maya hanno calcolato la fine del mondo, i Cinesi sono andati ben oltre: hanno reso il futuro imprevedibile.
Al lettore dunque la scelta. Ogni economia dopotutto, come ogni profezia, è una questione di “fede”.