Da qui in poi l'intervista al Prof. Orsi. Buona lettura
Un mondo di simulacri: sul futuro della democrazia e del capitalismoIntervista al professor Roberto Orsi di Andrea Muzzarelli*
Cominciato sotto il segno di due eventi – la strage di Parigi e la mossa a sorpresa della BNS sul franco svizzero – che mostrano quanto sia instabile l’ordine globale sia sul piano geopolitico che su quello economico-finanziario, il 2015 promette di porre un’altra pietra miliare sull’impervia strada della Grande Crisi che ci accompagna dal 2008. Con la complicità del mondo politico, la finanza internazionale e le principali banche centrali ha scientemente deciso di nascondere la polvere sotto il tappeto, ignorando la realtà e gonfiando una bolla infinitamente più grande di quella appena scoppiata – secondo una ferrea logica di irresponsabilità che ci appare come una delle cifre stilistiche fondamentali di quest’epoca. La Grande Crisi ha comunque l’indiscutibile merito di spingerci a mettere in discussione teorie, idee, categorie concettuali, “valori” che nello stanco Occidente si davano ormai per scontati, acquisiti in via definitiva. Se il sonno della ragione genera mostri, il declino di una riflessione filosofico-politica “forte” rischia infatti di renderci ciechi di fronte al progressivo svuotamento di parole come “democrazia”, “mercato”, “capitalismo”, “denaro”, “libertà”.
Queste sono alcune delle considerazioni chi ci hanno spinto a rivolgere alcune domande al professor Roberto Orsi, PhD in Relazioni Internazionali alla London School of Economics. Docente e ricercatore all’Università di Tokyo, Orsi è l’acuto e originale autore di alcuni articoli lucidi e impietosi sul declino dell’Italia (diventati rapidamente virali sul web), e in tempi recenti si è occupato della crisi ucraina e del futuro dell’ordine mondiale.
Professor Orsi, nel suo articolo Order and Change in Global Politics: Assessing the “Return of Geopolitics”, lei individua tre prospettive principali per il futuro dell'ordine mondiale. Ce le potrebbe sinteticamente riepilogare?
L’articolo nasce nel contesto di un dibattito tra studiosi americani circa il ritorno di forti tensioni geopolitiche negli ultimi anni, particolarmente evidenti con la crisi in Ucraina e il confronto navale in atto nei mari asiatici tra la marina cinese e quella degli USA e dei loro alleati. Ho cercato di costruire un punto di vista “europeo” su questo tema partendo dalla critica a un uso incorretto ma ancora pervasivo della filosofia della Storia di Hegel nell’ambito degli studi internazionali, iniziata da Francis Fukuyama nel suo famoso saggio del 1992 (The End of History and the Last Man). Tale critica non è nuova ma vale la pena di riproporla ancora una volta. Nella restante parte contestualizzo le categorie di pensiero “classiche” prevalenti nel discorso sulla politica internazionale negli Stati Uniti, in particolare la stabilità di concetti come “democrazia” e “ordine internazionale liberale” (liberal international order). Infine metto in rilievo tre gruppi di problemi che, a mio modo di vedere, saranno determinanti nel dare forma alla politica internazionale (e nazionale) di questo secolo, ovvero: 1) la ricostruzione di un sistema economico internazionale, e in particolare monetario, che sostituisca lo sgangherato sistema attuale, risultato finale di un processo degenerativo che, iniziato con lo sfaldarsi di Bretton Woods, ha avuto una drammatica accelerazione dal 2008 in poi con il protrarsi di politiche monetarie d’emergenza senza precedenti nella storia economica. Tale processo ha condotto a una profonda alterazione della natura stessa del denaro e quindi dell’intero rapporto tra finanza, economia “reale” e politica; 2) la determinazione del ruolo e luogo delle identità collettive, nazionali, religiose, tribali o altro, nella politica del ventunesimo secolo. Particolarmente in ambito occidentale, negli ultimi decenni si è assistito a un’opera di radicale “decostruzione” delle identità collettive, teorizzando la vita politica quasi esclusivamente attorno ai poli dell’individuo o dell’umanità tutta, con la quasi scomparsa di tutte le formazioni intermedie, dalla famiglia alla nazione. Queste, tuttavia, hanno fornito per millenni il luogo delle forme di socializzazione profonda che sono state per millenni alla base dei processi costitutivi della persona e delle identità collettive, il nucleo di ogni riflessione politica; 3) la conciliazione tra le esigenze materiali delle società umane e la sostenibilità ambientale dell’odierna (e futura) civiltà tecnologica. In questo primo scorcio di ventunesimo secolo pare stia diventando sempre più chiaro che, escludendo improvvise quanto improbabili rivoluzioni tecnologiche a breve, non è né sarà ecologicamente possibile garantire standard di benessere a livelli occidentali a crescenti masse di esseri umani (attualmente ben oltre sette miliardi) che aumentano di un miliardo ogni 14-15 anni. Negli ultimi vent’anni si è registrato un notevole incremento del tenore di vita in Asia e in altre regioni del globo – solo parzialmente bilanciato da una contrazione in Occidente – ma quanto di questo sviluppo si basa su uno sfruttamento di risorse naturali che eccede la loro capacità di rigenerazione? Numerosi scienziati in tutti i campi avvertono che tutto ciò, nel lungo periodo, non è sostenibile. Queste tre problematiche, nel loro insieme, rappresentano una sfida formidabile alle ideologie politiche dominanti – siano esse di matrice liberale o socialista – poiché pongono dilemmi o trilemmi tra valori considerati come egualmente fondamentali e “irrinunciabili”. Il punto sta nel cogliere che scelte e compromessi difficili e forse oggi ancora impensabili diventeranno, a un certo punto, ineluttabili.
In un’intervista televisiva del 1989, il filosofo e sociologo Ralf Dahrendorf si richiama a Weber per sottolineare che, in un clima di generale mediocrità, le istituzioni democratiche – proprio quelle istituzioni che dovrebbero rendere possibile il cambiamento – possono in realtà finire per impedirlo, diventando una sorta di “muro di gomma” invalicabile (l’Italia è un caso da manuale, al riguardo). E qui ci ricolleghiamo a quanto lei scrive, nell’articolo citato, sulle democrazie come vettori di sviluppo, e non di declino. Ritiene che l’idea di democrazia come sistema politico che consente di realizzare cambiamenti in favore del demos senza ricorrere alla violenza (idea cara, tra gli altri, a Popper) sia definitivamente tramontata?
La democrazia sta vivendo un processo di de-contestualizzazione che ne riflette la degenerazione. Essa, quasi unanimemente, viene oggi concepita come un “valore”, ma in concreto si tratta semplicemente di una tra le possibili forme di governo. Qualsiasi discorso sui sistemi politici, almeno da Platone in avanti, parte dalla considerazione che un dato regime può operare solo in determinate circostanze, che lo rendono appunto sostenibile e, possibilmente, vantaggioso per la comunità politica che esso amministra. Preservare un certo regime politico significa dunque conservarne le condizioni (economiche, culturali, sociali, persino internazionali) che lo rendono possibile. Condizioni senza le quali esso si degrada, implode, scompare. Naturalmente, è proprio in ciò che consiste il difficile della politica: nel guidare la comunità attraverso un processo di adattamento ai cambiamenti che, inevitabilmente, si verificano conservando al contempo ciò che deve essere preservato. La democrazia richiede la presenza di un demos: non di una “popolazione” o di un “elettorato” qualsiasi in senso esclusivamente formale, ma di una comunità in senso profondo e organico, come lo possono diventare quei gruppi umani che, generazione dopo generazione, imparano a vivere come un unicum, come appunto il demos della polis greca o del villaggio svizzero, con i loro riti, simboli, luoghi di riunione, passaggi iniziatici. Inoltre, la democrazia non può prescindere da una struttura economica basata sulla piccola proprietà diffusa dei mezzi di produzione (ovvero della terra e del capitale), nella convinzione che non vi è autentica libertà per chi sia indigente, né vera distribuzione del potere politico quando la base economica della società si concentra nelle mani di pochi. Questo è ben noto sin dai tempi di Aristotele. La democrazia applicata a comunità politiche di decine o centinaia di milioni di persone ha problemi aggiuntivi che, già in molte istanze, ne rendono sospetto il carattere di autentica democraticità. Si pensi alla questione della rappresentanza, del rapporto tra centro e periferia, del ruolo svolto da minoranze abbastanza numerose da costituire una comunità (o società) parallela. Il punto è però che, anche in una democrazia diretta, ci sono elementi di carattere culturale ed economico che la democrazia presuppone, di cui abbisogna, ma che essa stessa non può garantire. Il riferimento che Dahrendorf fa alla “mediocrità” può riferirsi a una moltitudine di fenomeni. Innanzitutto l’anti-intellettualismo che si è accompagnato alla creazione della società di massa. In secondo luogo, la specializzazione di chi fa politica nel raggiungimento del successo elettorale a scapito dell’acquisizione di capacità intellettuali e pratiche di governo, cosa ormai evidentissima in tutto il mondo occidentale. In terzo luogo, la scomparsa a livello politico-culturale di qualsiasi ambizione collettiva, che si riflette nell’impossibilità di formulare obiettivi per il futuro del paese, o persino di pensare al futuro tout court. Facendo un esempio concreto, non è un caso che i migliori leader politici italiani dopo il 1946 siano stati quelli del primo decennio della Repubblica, in quanto si tratta invariabilmente di uomini formatisi prima che prendesse corpo la società di massa. De Gasperi addirittura fu figlio dell’Impero Asburgico. Einaudi era figlio del vecchio Piemonte sabaudo, austero, magari provinciale, ma pur sempre di grande integrità e rigore. La lettura della Carta Costituzionale italiana come descrizione di un modello politico rimanda continuamente a un tipo ideale di cittadino, e soprattutto di uomo politico, caratterizzato da spiccate virtù di carattere civico e morale. L’esistenza e il buon funzionamento della Repubblica Italiana presuppongono che tali virtù siano diffuse tra la popolazione e la sua classe dirigente, ma non viene spiegato da dove tali virtù provengano, né come esse possano essere trasmesse alle generazioni successive. La preservazione di queste virtù civiche non ha funzionato, e anzi il Paese è diventato un gigantesco incubatoio del più devastante degrado antropologico e sociale cui esso abbia assistito negli ultimi secoli. Questo fenomeno non è certamente localizzabile solo in Italia, ma si riscontra in tutta l’Europa occidentale e negli Stati Uniti. Chiaramente, l’Italia aveva già dal principio molto meno “capitale” sociale, economico, culturale da bruciare, come la Grecia, e sta arrivando più velocemente di altri paesi alla fine delle sue possibilità. All’interno di questo quadro di crisi, si assiste alla produzione di un discorso ideologico per la protezione dello status quo, quello di un modello degradato che riproduce degrado, con la stigmatizzazione di chiunque cerchi di affermare che la traiettoria attuale è quella sbagliata. Di qui la continua autoreferenzialità di chi gestisce il potere, l’isolamento dai veri problemi della società, l’impermeabilità alla critica. Nel mio articolo cerco invece di spiegare le ragioni per cui la traiettoria del mondo occidentale odierno contraddice secoli di discussioni politiche su cosa sia il buon governo, e in che cosa consista una comunità politica funzionante. Occorre un cambiamento di cultura politica che, temo, non arriverà se non in conseguenza di un ulteriore, forte aggravamento della situazione – e, forse, troppo tardi.
Tra i fattori cruciali che oggi minacciano la stabilità e la sopravvivenza stessa delle democrazie occidentali ci sono senza dubbio il capitalismo finanziario “estremo”, che sta producendo immense distorsioni e inasprendo le disuguaglianze sociali, e la capacità (senza precedenti nella storia) dei governi di avvalersi della tecnologia per spiare i cittadini (emblematico il caso Snowden/Datagate). Possono le democrazie sopravvivere in tale contesto senza esserne del tutto snaturate?
Chiedersi se le “democrazie” possano sopravvivere in questo contesto è in qualche modo una domanda già superata dai fatti: viviamo già da tempo in post-democrazie, ovvero in sistemi che si richiamano a simboli, tradizioni di pensiero, autori e forme giuridiche dei modelli democratici, ma sono in realtà altro. Questo non vuole essere tanto un richiamo alla necessità di restaurare una “vera democrazia”. Non perché ciò non sarebbe auspicabile, ma perché ben altri problemi, molto più gravi, sovrastano l’Italia e l’Europa, minacciando l’esistenza stessa della comunità politica, sia essa democratica o meno. Del resto, sono proprio lo sviluppo esponenziale dei mezzi di manipolazione della società attraverso la gestione dei flussi d’informazione e le dinamiche dell’economia industriale globalizzata a rendere la democrazia in senso classico sostanzialmente impossibile fino al momento in cui queste condizioni non cambieranno. Ciò potrebbe non avvenire per molto tempo. Personalmente, ritengo che una ripresa del modello democratico nei prossimi decenni sia improbabile. A questo proposito, vorrei brevemente approfondire due punti: Non vedo la possibilità di ristabilire un’autentica democrazia sino a quando fenomeni di questo tipo continueranno a proliferare dietro il sottile velo del tout va bien.
Una gigantesca bolla che sembra possa crescere all’infinito, tassi d’interesse a zero o negativi, quantitive easing senza limiti, banche centrali che acquistano un ruolo sempre più politico e al contempo distorsivo dei meccanismi di funzionamento dei mercati… Dopo la crisi del 2008 il capitalismo finanziario internazionale ha alzato ancor più la posta in gioco, quasi si volesse creare un immenso casinò dove tutti vincono e nessuno perde mai. Tutto questo non significa, in ultima istanza, negare l’essenza stessa del capitalismo?
Ci troviamo di fronte al rovesciamento, quasi si direbbe al contrappasso, dell’ideologia neo-liberale e della sua concezione dell’economia di mercato. Tale approccio al problema economico diventò dominante anche (e, forse, soprattutto) in risposta all’assenza di un’autentica crescita economica nel mondo anglo-americano a partire dalla crisi degli anni Settanta. Sfruttando la centralità del dollaro, di Wall Street e della City di Londra, il capitalismo anglosassone è riuscito nell’impresa di rilanciare i numeri della sua economia creando di volta in volta una successione di “manie” o “bolle” finanziarie. Di particolare importanza sono state la bolla di Internet alla fine degli anni Novanta e quella del mercato immobiliare del 2004-07. Quest’ultima dev’essere osservata con attenzione. È del tutto evidente che tale bolla trae origine dalle politiche monetarie eccessivamente espansive della Federal Reserve, le quali stimolarono un’eccezionale crescita del credito, con ritmi superiori al 10% annuo. In quel periodo la politica monetaria americana riuscì a produrre un aumento generalizzato del valore nominale di quasi tutte le classi di asset (con l’eccezione del dollaro stesso). Al collasso del 2008-09 si è risposto con una colossale opera di rilancio creditizio, divenuta globale con la partecipazione delle banche centrali dell’Inghilterra, del Giappone e, in maniera più sottile, della Banca Centrale Europea. Ciò è diventato necessario per sostenere i debiti degli stati, nonché gli istituti bancari altrimenti irrimediabilmente falliti. In sostanza, l’attuale opera di inaudita manipolazione monetaria maschera il collasso del sistema pre-2008. Tale espansione della liquidità senza precedenti nella storia economica sta generando effetti paradossali, tali da alterare la natura stessa del capitalismo. Innanzitutto, si sta assistendo a una mutazione dell’idea di denaro. Anche se già il compromesso della moneta non convertibile in metalli preziosi (fiat currency) era basato su un altro difficile compromesso tra credibilità e fiducia, la gestione dell’offerta di moneta era pur sempre improntata al principio economico di scarsità, e all’idea del denaro come deposito di valore e lubrificante degli scambi, nell’ottica di una rapida circolazione dello stesso. Oggi ci troviamo in una situazione completamente diversa nella quale, soprattutto con riferimento al dollaro in qualità di moneta globale, l’offerta è potenzialmente illimitata e, dunque, non vi è scarsità. Ogni perdita può e deve essere appianata, secondo il principio del too big to fail e per la protezione del sistema finanziario. Ma se non esistono più le perdite, per una questione dialettica non esistono più nemmeno i profitti. Se non esistono né perdite né profitti, non esistono più né la concorrenza né il mercato: il cerchio si chiude. Naturalmente la “fine della scarsità di denaro” non è per tutti, ma solo per coloro che si trovano in una posizione (politica) privilegiata di accesso diretto al credito delle banche centrali. Si passa dunque da un sistema basato – almeno in teoria – sulla concorrenza e sul merito a uno basato sulla prossimità personale alle banche centrali e a chi le gestisce. Un sistema dai tratti quasi feudali (aprire una banca è una concessione). La nemesi del neo-liberalismo si manifesta anche nel rovesciamento del ruolo delle banche centrali. La dottrina neo-liberale teorizzò l’indipendenza e il ruolo dei banchieri centrali secondo la discutibilissima idea che la gestione del denaro non costituisca un fatto politico, e che dunque debba essere affidata a tecnici sottratti a qualsivoglia coinvolgimento, nonché controllo, di carattere politico. La realtà è però l’esatto opposto: la gestione del denaro è sempre un fatto politico. I banchieri centrali sono dunque diventati molto più potenti di qualunque parlamento, le loro rassicuranti parole circa un’illimitata offerta di denaro per un tempo che rimane indefinito (nonostante si continui a parlare di futuri rialzi dei tassi d’interesse) è l’unica cosa che conta davvero per tutti gli operatori finanziari, qualunque siano i dati dell’economia reale, della geopolitica, di qualunque altro fattore. Il “mercato” è ormai tanto falsificato quanto il “denaro” che in esso circola. Più in generale, a livello quasi filosofico, la “bolla” a cui stiamo assistendo è una sfida politico-culturale tra due diverse concezioni del mondo, e del tempo presente. Da un lato coloro che pensano in termini eccezionalistici, si direbbe “all’americana”, che si riconoscono nel motto this time is different, per i quali siamo entrati in una nuova era della Storia (torniamo all’argomento quasi-millenaristico à la Fukuyama) nella quale le vecchie leggi dialettiche di azione e reazione non sono più valide, e ci si è finalmente liberati dei limiti della condizione umana precedente. Dall’altro, coloro che pensano di essere in presenza di un’aberrazione temporanea, che le leggi del mondo come le conosciamo rimangano valide nonostante tutto, e che il castigo colpirà prima o poi coloro che hanno spinto la propria hybris là dove non è consentito. Personalmente ritengo che non siamo entrati in una nuova era della Storia. Ma è perfettamente possibile che la manipolazione dei mercati continui ancora per lungo tempo. Del resto, è anche probabile che la nemesi degli eccessi attuali prenda forma, ancor prima che sui mercati finanziari, sul piano del rischio geopolitico e sociale. Come, in qualche modo, sta già accadendo.
La bolla che è stata creata dopo il 2009 con il contributo determinante delle banche centrali sembrerebbe dimostrare come vi sia ormai una manifesta e cronica incapacità delle economie occidentali di crescere in assenza di “stimoli” artificiali molto forti (come i tassi a zero e il QE, per l’appunto). A cosa è dovuta, secondo Lei, questa sempre più manifesta incapacità?
L’incapacità di crescere può essere ricondotta a diversi fattori. Da un lato c’è il problema che la “crescita” non può certo continuare all’infinito, e questo vale soprattutto, in un pianeta finito, quando per crescita s’intende l’espansione economica in senso estensivo, piuttosto che intensivo. Nel mondo occidentale la stagnazione dell’economia reale ha varie cause, in primo luogo la stagnazione/recessione demografica e l’invecchiamento della popolazione, che per varie ragioni non può essere compensata (e infatti non lo è) dall’immigrazione. Anche se personalmente ritengo che il mondo occidentale dovrebbe fare molti più sforzi per raggiungere un migliore equilibrio demografico, è chiaro che la popolazione non può crescere all’infinito. Al fattore demografico si aggiungono quelli inerenti al cambiamento delle attività economiche prevalenti. In Occidente si è assistito a una pesante de-industrializzazione, con il trasferimento delle attività manifatturiere verso Oriente, e il ripiegamento verso l’espansione dei servizi. Tuttavia, quanti di questi servizi hanno davvero un valore aggiunto? Negli Stati Uniti i servizi finanziari sono una parte cospicua del PIL, in continua ascesa dagli anni Settanta. Eppure Paul Volcker, ex governatore dalla Federal Reserve, ha tranquillamente affermato che di tutte le innovazioni finanziarie negli scorsi decenni, solo l’introduzione del bancomat avrebbe prodotto benefici sostanziali per la società. L’impressione è che la crescita economica autentica non possa prescindere completamente dall’industrializzazione in senso tradizionale, cosa di cui in Oriente si è acutamente consapevoli. Un terzo elemento potrebbe essere quello di un certo rallentamento nell’innovazione tecnologica. La tesi, formulata inizialmente dall’economista americano Robert Gordon, è controversa ma non implausibile. Gordon sostiene che le scoperte e innovazioni degli ultimi trent’anni non hanno avuto il medesimo, rivoluzionario effetto sulla vita economica se paragonato a quello che caratterizzò la transizione dalla società del cavallo, delle lavandaie e della ghiacciaia alla società dell’automobile, della lavatrice e del frigorifero. Il nostro modo di abitare, di nutrirci, di spostarci non è in fin dei conti cambiato molto dagli anni Ottanta o oggi. Molte delle invenzioni prospettate nel passato non si sono materializzate o sono state abbandonate, pensiamo al volo commerciale supersonico, o ai viaggi spaziali. Ciò non significa minimizzare la rivoluzione della telefonia o di internet, né che altre scoperte rivoluzionarie non siano possibili. Lo sono, ma si tratta di obiettivi più ardui che in passato. Un conto è combinare meccanica di precisione e ingegneria elettrica per produrre oggetti più o meno direttamente manipolabili dall’uomo, sfruttando le leggi fisiche più elementari. Cosa molto diversa è operare nell’infinitamente piccolo e nell’infinitamente complesso per accedere a usi strumentali della biogenetica, delle neuroscienze, della fusione nucleare, dell’intelligenza artificiale, che dovrebbero costituire la prossima frontiera.
Un’ultima domanda sull’Italia, di cui Lei ha scritto con grande lucidità in più di un’occasione. Come giudica gli ultimi provvedimenti adottati dal governo Renzi, dal tanto contestato Jobs Act alla Legge di Stabilità 2015?
Sul governo Renzi non ho cambiato opinione, si tratta di un’operazione d’immagine abilmente costruita in un quadro di totale discredito degli altri attori politici. Dietro questa sottile facciata mediatica, Renzi continua l’opera dei suoi predecessori, ovvero la gestione di una graduale implosione dell’Italia, ormai inevitabile, con l’obiettivo, concordato insieme a Bruxelles e Francoforte, di evitare un collasso improvviso o troppo rapido, che avrebbe effetti negativi sulla stabilità finanziaria europea e oltre. Come ho scritto in uno degli ultimi articoli, le cosiddette riforme di cui il governo si è fatto promotore sono estremamente limitate, di una lentezza sconcertante, e in definitiva non cambiano nel modo più assoluto la situazione del Paese, né nell’immediato né nel futuro. E neppure potrebbero esserci riforme qualitativamente migliori nel contesto della cultura politica oggi prevalente – un curioso miscuglio di neo-liberalismo (ormai completamente superato in termini storici), radicalismo post-sessantottino, pauperismo post-conciliare cattolico, europeismo acritico. Altri elementi, come la totale perdita di controllo del territorio e delle frontiere da parte dello Stato, sono di una gravità inestimabile. Rimango dell’avviso che una soluzione ai problemi del Paese non potrà mai essere trovata all’interno di questo orizzonte politico-culturale. Il primo problema dell’Italia (e dell’Europa), molto più della corruzione, risiede anzi proprio nella sua cultura politica, nel modo di leggere se stessa e il mondo.
*Redattore e traduttore freelance, twitter: @amuzzarelli