Cos’è il romanzo oggi? Quale genere narrativo sa raccontare meglio la realtà? Quali sono o saranno le forme espressive dominanti del XXI secolo? Dov’è il limite tra citazione e plagio? Chi stabilisce se un autore, appropriandosi di una parte dell’opera altrui, sta costruendo un nuovo orizzonte di senso o sta solo copiando?
Queste sono alcune delle domande che pone e si pone David Shields: autore di opere narrative e saggistiche di successo, tra cui “Black Planet” (finalista al National Book Critics Circle Award), tradotte in dodici lingue, e di racconti e saggi brevi su varie testate (come, ad esempio, «New York Times Magazine», «Harper’s Magazine», «The Village Voice», «McSweeney’s» e «The Believer»).
Shields, per la verità, è andato oltre. Non si è limitato a porre (più o meno implicitamente) domande, ma ha pubblicato un libro (in Italia è stato appena pubblicato dalla Fazi) intitolato “Fame di realtà. Un manifesto”, dove – tra le altre cose – contesta l’utilità del genere romanzo così come è classicamente inteso. Per Shield (trascrivo dalla scheda del libro) “il romanzo del Terzo Millennio deve nascere dalla rifusione di vecchi materiali letterari, mescolati fino a perdere le tracce della fonte originaria e a fondersi in una forma ibrida tra saggistica e narrativa”. D’altra parte il testo che propone in “Fame di realtà” è composto da 618 citazioni suddivise in capitoli e riportate in una sequenza ordinata e sistematizzata secondo certi criteri che lui stesso ha prescelto, ma… senza indicare l’autore e la fonte (alla fine del libro l’editore, per evitare possibili ritorsioni legali riguardanti la violazione del diritto d’autore, ha imposto l’inserimento di una scheda con l’indicazione degli autori delle citazioni utilizzate).
Ecco cosa scrive Shield (qui nella foto) alla fine del volume, come appendice.
“Questo libro contiene centinaia di citazioni delle quali nel corpo del testo non viene menzionata la fonte. Sto cercando di rivendicare una libertà che gli scrittori da Montaigne a Burroughs davano per scontata e che noi abbiamo perso. La vostra incertezza sugli autori delle parole che avete appena letto non è un difetto ma una virtù.
Uno dei temi centrali di “Fame di realtà” è il furto e il plagio e cosa queste parole vogliano dire. Non sarei riuscito ad affrontare l’argomento senza lasciarmi invischiare. Sarebbe come scrivere un libro sulla menzogna e non poter mentire. Oppure scrivere un libro su come abbattere il capitalismo ma sentirsi rispondere che non verrà pubblicato perché potrebbe danneggiare l’industria editoriale.
Tuttavia l’ufficio legale di Random House ha deciso che fosse meglio allegare un elenco completo delle citazioni (…). Se volete ripristinare la forma originaria in cui il libro andava letto, vi basta prendere un paio di forbici o una lametta o un taglierino e staccare le pagine che vanno dalla 248 alla 262 tagliando lungo la linea tratteggiata.
Di chi sono le parole? Di chi è la musica e tutto il resto della nostra cultura? È nostra, di tutti, anche se per ora non tutti lo sanno. Non si può imporre un diritto d’autore alla realtà.”
Questo libro ha scatenato un ricco e articolato dibattito negli States e in altri paesi, anche perché tra i sostenitori del volume – e delle tesi di Shields – figura il Premio Nobel per la Letteratura 2003 J. M. Coetzee, il quale ha dichiarato quanto segue: “Fame di realtà è un manifesto per la nuova generazione di scrittori e artisti, una pietra miliare per questo secolo, un assalto frontale a tutte le convenzioni, particolarmente a quelle che definiscono il romanzo perfetto. David Shields ci conduce in un viaggio intellettuale affascinante ed esilarante”.
Un’opinione di peso, quella di Coetzee… a cui hanno fatto seguito quelle di Jonathan Safran Foer [«Fame di realtà non è soltanto un libro che fa riflettere, ma è anche uno dei più belli che abbia letto da molto tempo a questa parte»] e Jonathan Lethem [«Ho appena finito di leggere Fame di realtà e mi ha illuminato, intossicato, entusiasmato, sopraffatto. È un vetro attraverso cui guardare il mondo (come lo mostrano letteratura, musica, video), e allo stesso tempo uno specchio in cui vederci riflessi, là in mezzo. Un libro urgente, oltraggioso, e anche un'opera che si compone leggendola»].
Mentre Zadie Smith ha affermato: è «intrigante da leggere, anche se disapprovo la maggior parte di quello che dice».
Non mancano i pareri favorevoli di quotidiani di grido come il New York Times («Il libro di Shields stabilisce i canoni dominanti dell’arte degli anni e dei decenni a venire». The New York Times Book Review) e The Guardian («Intelligente, stimolante e aforistico. Un manifesto provocatorio e divertente»).
Il dibattito si sta diffondendo un po’ ovunque tra gli appassionati di letteratura e ha raggiunto anche il nostro paese. Di questo libro ne hanno già parlato Matteo Sacchi (su Il Giornale), Alfonso Berardinelli (su Il Corriere della Sera), Mariarosa Mancuso (su Il Foglio), Stefano Salis – che ha anche firmato la prefazione del libro – e Nicola Lagioia (sulle pagine culturali de Il Sole24Ore).
Di seguito potrete leggere la prefazione di Salis (ringrazio sia Stefano, sia la Fazi per avermi autorizzato a pubblicarla). Nei prossimi giorni metterò a vostra disposizione altri contributi.
I giudizi di Sacchi, Mancuso e Berardinelli non sono molto favorevoli all’operazione.
Alfonso Berardinelli nel suo articolo sul Corriere scrive – con severità – “Se c’è qualcuno che non si perdona, è proprio chi dice qualcosa che abbiamo pensato e scritto per anni, ma lo dice male, noiosamente e nel tono sbagliato. Mi capita questo leggendo il libro di David Shields “Fame di realtà. Un manifesto” (Fazi) nel quale si annuncia dagli Stati Uniti, patria, fabbrica e paradiso del bestseller programmato, che in verità il romanzo è un genere fuorviante, abusato, quasi sempre un po’ fasullo; e che invece l’ aforisma, il saggio, le scritture fuori genere, gli zibaldoni di pensieri e i diari sono molto meglio: sono più onesti, più appassionanti, dicono cose più vere di quante ne dice un romanzo normale e «ben fatto». Condivido molto di ciò che Shields dice nel suo libro. Ma non riesco a condividere né l’entusiasmo del prefatore, Stefano Salis, né tantomeno le solenni affermazioni di J. M. Coetzee, secondo il quale Fame di realtà sarebbe «un manifesto per la nuova generazione di scrittori e artisti, una pietra miliare per questo secolo…».
Mi preme, poi, evidenziare questo passaggio del pensiero di Berardinelli (spiegherò il perché): “L’aforisma 538 suona così: «Mi ritrovo a dire, succintamente e prosaicamente, che è molto più importante essere se stessi che chiunque altro». Dalle note in fondo al libro si viene a sapere che una tale stupidaggine l’ha scritta Virginia Woolf nel suo famoso saggio “Una stanza tutta per sé”. Che cosa è avvenuto? La frase, che nel suo contesto era al posto giusto, è stata trasformata da Shields in una comica sciocchezza, che starebbe benissimo e sarebbe una cosa seria nel diario di un adolescente, ma nel manifesto estetico di un cinquantenne colto e ambizioso fa cascare le braccia”.
È probabile che Berardinelli abbia ragione, ma – a mio avviso – è proprio questa considerazione che contiene, al suo interno, un aspetto cruciale della questione. Quella frase è stata trasformata. Non è più quella originaria. O meglio, ha perso il suo senso originario per acquisirne uno nuovo (migliore o peggiore che sia). E il suo nuovo senso dipende dal contesto inedito in cui la frase stessa è inserita e dalla sequenza delle altre citazioni in cui è stata incastonata. Credo che questo aspetto della questione sia “centrale” rispetto al tema del futuro della tutela del diritto d’autore.
Ora, la domanda è: prendere una frase, estrapolandola dal contesto originario, per inserirla in un contesto nuovo, inedito, frutto di un insieme sistematizzato e pensato di citazioni, può essere considerato un atto creativo (e, in quanto tale, innovativo e autonomo), oppure si tratta di una semplice e banale operazione di copia-incolla?
È possibile paragonare tale operazione (per tentare un parallelismo con l’arte figurativa) a quelle che compiva Andy Warhol (penso alle note icone di Marilyn Monroe, Mao, Che Guevara)?
E fino a che punto si tratta di qualcosa di innovativo? Può essere considerata innovativa l’idea di rinunciare a indicare gli autori delle “frasi originarie” partendo da una ri-considerazione del diritto d’autore?
Ciò premesso (senza soffermarmi su avanguardie, neo-avanguardie e/o sperimentalismi del passato) questo libro di Shields, a caldo, mi ha evocato due pensieri (o meglio, “suggestioni”):
1. Un vecchio racconto di Roald Dahl, pubblicato la prima volta – se non erro – nel 1953, intitolato “Lo Scrittore automatico” (titolo originale: “The Great Automatic Grammatisator”). È la storia di un giovane aspirante scrittore che inventa una strana macchina in grado di produrre romanzi in quantità industriale rimescolando e ricomponendo un’accozzaglia di racconti, frasi, testi, attraverso una combinazione artificiale (basta premere leve e pulsanti) di trama, stile, linguaggio e genere. Questo racconto lo trovate sia in questo volume, che in quest’altro.
2. Le pillole Bur curate dall’amico Luigi La Rosa. Un insieme di citazioni estrapolate dai contesti originari e sistematizzate – sulla base di un tema prescelto – in capitoli “sotto-tematici”. Qui su Letteratitudine abbiamo avuto modo di discutere de “L’alfabeto dell’amore”, ma ricordo anche Pensieri erotici e Pensieri di Natale. In questo caso, però, a differenza di Shields (e il discrimine vero è proprio qui) alla fine di ogni citazione venivano riportati il nome dell’autore e il titolo dell’opera da cui il testo era stato estrapolato.
Mi fermo qui e passo la parola a voi, ri-proponendovi le domande:
1. Cos’è il romanzo oggi?
2. Quale genere narrativo sa raccontare meglio la realtà?
3. Quali sono o saranno le forme espressive dominanti del XXI secolo?
4. Dov’è il limite tra citazione e plagio?
5. Chi stabilisce se un autore, appropriandosi di una parte dell’opera altrui, sta costruendo un nuovo orizzonte di senso o sta solo copiando?
6. Ovvero… prendere una frase, estrapolandola dal contesto originario, per inserirla in un contesto nuovo, inedito, frutto di un insieme sistematizzato e pensato di citazioni, può essere considerato un atto creativo, oppure si tratta di una semplice e banale operazione di copia-incolla?
7. È possibile paragonare tale operazione (per tentare un parallelismo con l’arte figurativa) a quelle che compiva Andy Warhol (penso alle note icone di Marilyn Monroe, Mao, Che Guevara)?
8. E fino a che punto si tratta di qualcosa di innovativo?
9. Può essere considerata innovativa l’idea di rinunciare a indicare gli autori delle “frasi originarie” partendo da una ri-considerazione del diritto d’autore?
Provate a fornire la vostra risposta (se non a tutte le domande, a quelle che vi interessano di più).
Di seguito, la prefazione di Stefano Salis.
Massimo Maugeri
P.s. Di questo libro ne sta parlando anche Loredana Lipperini su Lipperatura
———————————
PREFAZIONE
di Stefano Salis (nella foto in basso)
La letteratura al tempo del copia e incolla.
La cultura al tempo del remix
Bene. Ora che vi accingete a leggerlo, qualche semplice istruzione per l’uso del libro, forse, vi tornerà utile.
Prima di tutto: l’opera che leggerete è di David Shields, nella sua interezza.
Che novità! E ci mancherebbe pure, direte. E che bisogno c’è di ribadirlo?
C’è. L’opera, infatti, è di Shields, le idee quasi tutte, molte delle parole che utilizza per farle venire fuori, no. L’assemblaggio, però, lo ha fatto lui, e le suggestioni che vengono fuori dal testo provengono dal suo modo di ragionare. E questo, in definitiva, è quello che più conta.
Fame di realtà è un manifesto, una dichiarazione di poetica, un quadro dello status quo narrativo, certo. Ma è anche un’esemplificazione concreta di ciò che tale manifesto vorrebbe prospettare per la letteratura degli anni a venire. La stessa struttura autoriale classica è messa in discussione: un volume costruito con altri libri, ma senza note, senza rimandi espliciti, senza interruzioni di lettura. Un frullato di parole altrui, insomma, che genera, però, un distillato del tutto nuovo.
Il libro è fatto di 618 frammenti, a volte brevissimi, a volte più lunghi e meditati. I pezzi sono selezionati e collocati all’interno di un alfabeto che descrive – con altissima percentuale di arbitrarietà – altrettante parole-chiave, funzionali, ciascuna, allo svolgimento del discorso nel suo complesso. Centinaia sono le citazioni, a volte letterali, a volte interpolate dalla voce dell’autore (di nuovo: concretamente Shields ci fa vedere come dovrebbe agire il manifesto che propugna…), di altri scrittori: opere letterarie, articoli di giornale, saggi, dichiarazioni, opere non ancora pubblicate, interviste e articoli reperibili sul web, persino chiacchierate private con scrittori e intellettuali. E persino (capita in almeno un caso, con Dave Eggers, uno dei numi tutelari di questo libro) dichiarazioni di autori, in seguito dagli stessi autori ritrattate, ma perfette – le dichiarazioni precedenti, diciamo, le idee, come dire… originarie – per ciò di cui si va discutendo. Né ci si ferma solo alla letteratura: jazz, arte, mercato, TV, cinema. Qualunque argomento è buono per supportare la tesi.
David Shields – americano, cinquantaquattro anni, nove libri prima di questo, tra i quali The Thing About Life Is That One Day You’ll Be Dead (Knopf, 2008), che riuscì a entrare nella classifica dei bestseller del «New York Times», romanziere ora chiaramente stufatosi del genere – dichiara esplicitamente, alla fine del volume, che il libro dovrebbe essere letto dal fruitore senza avvertimenti e senza consapevolezza della miriade di citazioni che contiene. I legali della casa editrice americana, la prestigiosa e potente Random House, che per prima ha pubblicato l’opera, hanno sconsigliato l’autore dall’omettere totalmente le fonti, e per di più in questa enorme quantità. E dunque potrete controllare quando volete “chi ha detto cosa”; ma, vedrete, non vi servirà più di tanto. «Se volete ripristinare la forma originaria in cui il libro andava letto, vi basta prendere un paio di forbici o una lametta o un taglierino e staccare le pagine che vanno dalla 248 alla 262 tagliando lungo la linea tratteggiata», scrive Shields in chiusura.
Il gioco del “chi l’ha detto?”, il piccolo Trivial di Fame di realtà, lo dichiariamo in partenza, non vale la candela. Non è un’opera da leggere andando continuamente a verificare a chi appartiene la citazione tal dei tali. Dopo un po’ ne avrete abbastanza (anzi, si perde la cosa più importante di questo libro: condividere o confutare le idee che vi sono esposte) e l’esperimento, per di più, funziona poco, almeno per noi italiani, perché la stragrande maggioranza dei citati sono autori ben poco noti da queste parti; per lo più saggisti, giornalisti, scrittori che hanno riflettuto e stanno riflettendo su come si è modificata la letteratura negli ultimi anni. Autori di una certa area culturale anglosassone che potremmo individuare, grosso modo, in quel gruppo eterogeneo di scrittori e saggisti stanchi dei moduli tradizionali della narrativa e della saggistica, che utilizzano le nuove tecnologie e sperimentano, con risultati alterni, gli esiti di una ricerca complicata e delicata. E, in più, l’incertezza sulle parole degli autori che leggete è, come dice Shields, un pregio, non un difetto del libro.
«Uno dei temi centrali di Fame di realtà è il furto e il plagio e cosa vogliono dire queste parole. Non sarei riuscito ad affrontare l’argomento senza lasciarmi invischiare», spiega Shields, sempre nell’Appendice. «Sarebbe come scrivere un libro su come abbattere il capitalismo ma sentirsi rispondere che non verrà pubblicato perché potrebbe danneggiare l’industria editoriale». Magari questo vi sembra un sofisma, e va bene: almeno spiega, però, il modo in cui il testo è stato scritto e perché. Per entrare nello spirito del libro, è forse questa la frase (che Shields usa per chiudere) più appropriata: «Di chi sono le parole? Di chi è la musica e tutto il resto della nostra cultura? È nostra, di tutti, anche se per ora non tutti lo sanno. Non si può imporre un diritto d’autore alla realtà».
Va da sé che il tema del diritto d’autore sarà sempre più centrale negli anni a venire, quando il concetto stesso tenderà a sfumarsi (insieme a quello di plagio) in nome del remix, anche grazie (o per colpa di, a seconda dei punti di vista) alla enorme quantità di materiale disponibile simultaneamente, utilizzabile prontamente e visibile gratuitamente che le nuove tecnologie (Internet in testa) ci garantiscono. Non è questa, ovviamente, la sede per approfondire il complesso soggetto del cambiamento del concetto di diritto d’autore, ma lo sfondo culturale sul quale si adagia il libro di Shields è esattamente questo.
La tecnologia, inoltre, opera sulle idee: un fenomeno, questo, che spesso gli intellettuali e i critici letterari faticano ad accettare, eludendolo a bella posta e a priori, ma che si rivela difficile da aggirare. Basta guardarsi intorno, e basta avere un minimo di nozione di storia della cultura per vederlo in atto.
Per esempio: viviamo in un mondo assai diverso da quello in cui è nata e si è sviluppata la forma narrativa “romanzo”, quella che maggiormente le prende nel libro di Shields. Perché mai dovremmo pensare che questa non si debba evolvere per stare al passo coi tempi? O che magari, invece, sia diventata inservibile per essere rappresentativa della cultura e della nozione contemporanea di letteratura?
Ecco: forse è questo, ancora più del plagio (ma è evidente che sono temi connessi), il nocciolo del manifesto di Shields.
Se ne sono accorti in parecchi, del resto. A lettura finita, o mentre ancora leggete, vi renderete conto che Fame di realtà centra direttamente l’oggetto sul quale da anni molti critici letterari stanno riflettendo. Ecco perché l’impulso a rileggere queste pagine, a coglierne sempre nuovi spunti (o a controbattere, ancora con più violenza), sarà, lo garantiamo da prefatori entusiasti, irresistibile.
Molti scrittori americani, dal canto loro, ammettono che questo libro rimarrà a lungo sul loro comodino. Già, perché l’opera di Shields è finita nelle mani giuste. Ancora prima di uscire (la prima edizione americana data febbraio 2010), è stata letta e commentata in bozze. Appena pubblicata (con i commenti pre-lettura nei risguardi di copertina) ha subito scatenato un dibattito in America e in Inghilterra come non se ne vedeva da tempo, soprattutto sulla critica letteraria. Dibattito che nelle comunità internettiane e, soprattutto, tra gli scrittori di narrativa ha spopolato. E che non era, si badi, il trito dibattito su “il romanzo è morto?” (tipico tema balneare per stanche redazioni culturali dei giornali nostrani) ma, ben più sostanzialmente, su quale forma di letteratura ci dovremo aspettare per il futuro, quali modelli narrativi, quali suggestioni arrivano dalla realtà che ci circonda e che viviamo tutti i giorni.
I colleghi scrittori di lingua inglese hanno fatto a gara per recensire, lodare o anche (come ha fatto Zadie Smith in un articolo che diventerà forse libro, verosimilmente un contro-manifesto rispetto a questo che state per leggere) per contrastare il libro di Shields: da Geoff Dyer a Dave Eggers, da Tim Parks a Jonathan Lethem a Phillip Lopate, finissimo saggista e uno degli autori più citati e tenuti in considerazione da Shields.
Non abbiamo intenzione di riassumere le idee di Shields, banalizzandole. A grandi linee si può dire che la tesi è che il romanzo – inteso come costruzione di una storia fatta di sola immaginazione, con personaggi, trama, punti di vista – sia atrofizzato o siano atrofizzati gli autori. Tanto che gli scrittori letterari più interessanti, forse spiazzati da un mondo sempre più artificiale, continuano a mescolare la “propria” vita (o quella di altri) per «desiderio di realtà», per poter narrare: vi bastino i nomi di Zadie Smith, sebbene ostile a Shields, di J.M. Coetzee (tre romanzi simil-autobiografici), ma anche James Frey, al centro di un eclatante caso letterario qualche anno fa per il memoir A Million Little Pieces rivelatosi poi troppo inventato (e Shields ritorna moltissimo su questa vicenda, per il valore di paradigma che assume), o Dave Eggers che ha scritto almeno due «docuromanzi».
E se è vero che la cultura che ci circonda è piena di frammenti di realtà, simulata o meno (esempio: il successo dei reality show, dei film che “fingono” il documentario, alla Borat), forse l’arte, che dovrebbe imitarla (?), secondo i precetti classici, vive un’impasse o un ripensamento. O, semplicemente, sta cambiando pelle. E l’obbligo è interrogarsi su come realtà e finzione debbano confrontarsi sul terreno della pagina scritta. Inserire pezzi di realtà, fare collage delle proprie esperienze, manifestare al lettore i movimenti del cervello dello scrittore: ecco alcune delle suggestioni che Shields provocatoriamente espone. La realtà irrompe nella scena letteraria, travolge le distinzioni fiction/non-fiction, viene digerita e remixata e restituita sotto forme ambigue, dal personal essay al saggio lirico, dalla sghemba natura del memoir, con ampia facoltà di invenzione, all’autobiografismo con licenza d’immaginazione.
Tutte questioni messe in campo, con forzature, talvolta, anche decise. Citazione 307: «Fiction e non-fiction non esistono più: esiste solo la narrativa (O forse non esiste nemmeno questa?)». Citazione 311: «Le forme si adeguano alla cultura: quando muoiono, lo fanno per una buona ragione. Vuol dire che non incarnano più il senso della vita. Se i reality riescono a trasmettere qualcosa che uno spettacolo più palesemente scritto o lavorato non riesce ormai a fare, questo per uno scrittore dev’essere più una sfida che un oltraggio». Con tanti saluti allo snobismo intellettuale di questa metà del mondo.
Ecco una citazione decisiva delle argomentazioni di Shields, quasi simbolicamente posta al centro esatto del libro: «Amo la letteratura, ma non perché ami le storie in sé. Trovo quasi tutte le mosse del romanzo tradizionale incredibilmente prevedibili, fiacche, improbabili ed essenzialmente inutili. Non ricordo mai i nomi dei personaggi, gli snodi della trama, i dialoghi, i dettagli dell’ambientazione. Non mi è chiaro cosa dovrebbero rivelare sulla condizione umana narrazioni simili. Invece sono attratto dalla letteratura come forma di pensiero, di coscienza, di sapienza. Mi piacciono le opere che mettono a fuoco non solo pagina dopo pagina ma riga dopo riga quello che importa veramente allo scrittore, invece di sperare che tutto questo emerga chissà come misteriosamente dalle crepe della narrazione, che è quello che oggi accade in quasi tutti i racconti e i romanzi. Le opere-collage parlano quasi sempre di “quello di cui parlano” – che potrà sembrare un tantino tautologico – ma quando leggo un libro che mi piace davvero, sono emozionato perché sento l’emozione dello scrittore che in ogni paragrafo sta palesemente esplorando il suo soggetto».
A un certo punto del libro, negli ultimi capitoli – fondamentali per capire il manifesto – Shields se la prende con Jonathan Franzen, il cui romanzo, Le correzioni, è stato probabilmente il simbolo narrativo dei primi dieci anni del XXI secolo. Non è utile soffermarsi su questo singolo caso: è il contesto generale che ci obbliga a ripensare cosa sarà della prosa nei prossimi decenni. «Al centro della “cultura letteraria” si trova il romanzo supervenduto di scrittori che non sono né carne né pesce, il solito monnezzone di quattrocento pagine. Incredibile, la gente continua a sciropparsi roba simile». «C’è inevitabilmente qualcosa di terribilmente artificioso nel romanzo tradizionale: riesci sempre a sentire le ruote dell’ingranaggio che girano». «Se scrivi un romanzo, ti siedi e fili un po’ di narrazione. Se sei uno scrittore romantico, scrivi romanzi su uomini e donne che si innamorano, guarnisci con un po’ di narrativa ecc. E va bene, ma non conta niente. Il romanzo in quanto romanzo è una forma di nostalgia». «I romanzi che mi piacciono sono quelli che non hanno l’aria di esserlo». Si potrebbe continuare a lungo, ma crediamo che sia sufficiente.
Shields contesta il romanzo, la sua forma, il suo status presente. È in buona compagnia, e forse non è nemmeno una novità. Ed è persino ovvio ripetere che continueranno a essere scritti ottimi, eccellenti romanzi-romanzi nei decenni a venire.
Ma come non c’è niente di male a guardare e produrre anche oggi un bel film in bianco e nero, è certo che dopo l’introduzione del colore le cose, per il cinema, sono cambiate radicalmente.
Così, alla base di questo volume, che coglie come pochi altri lo spirito del tempo (quello che chi vuole fare bella figura chiama Zeitgeist) c’è la possibilità (il dovere) di uscire dagli schemi ai quali siamo abituati.
Basta con le etichette formali nelle quali incasellare la narrativa (di comodo uso giornalistico, senza dubbio), basta con l’idea dell’originalità a tutti i costi (nell’arte succede già, da secoli: il dipinto di Bacon che riprende Velázquez è citazione, deformazione, originalità, tutti riconoscono la provenienza, nessuno si scandalizza, nessuno pensa ad appropriazione indebita), basta con il ricorso alla sola forma narrazione di una storia.
Se la letteratura è un oggetto che prima di tutto ha a che fare con l’uso della lingua – cosa che molti scrittori tendono a dimenticare – c’è bisogno di una nuova consapevolezza su come si scriveranno i “romanzi” (meglio: le opere che saranno giudicate come letteratura) nel prossimo, anzi nell’immediato, futuro.
Nel quale, non dimentichiamolo, persino la parola sarà uno strumento che non basterà più. Di nuovo, le tecnologie, la possibilità di inserire suoni, immagini e chissà cos’altro (oltre che il tempo che ci vorrà ad abituarci, all’idea e al fatto) sbaraglieranno le nozioni che abbiamo avuto finora.
Dunque copiate, remixate, frullate, ragionate, contestate, accettate, rifiutate e, se siete scrittori, producete: questa sfida è soltanto all’inizio. Il dibattito comincia a partire da questo libro. E continuerà, a lungo, nei libri, nelle discussioni on-line e su carta, nel modo nuovo di pensare all’arte.
La parola a ciascuno di noi. Ora basta, avete perso anche troppo tempo su questa introduzione. Iniziate a leggere e meditare. Ci farà bene, a tutti noi innamorati della letteratura.
Milano, settembre 2010
———–
AGGIORNAMENTO DEL 28 OTTOBRE 2010
Pubblico l’articolo firmato da Nicola Lagioia, pubblicato sull’allegato “Domenica” de “Il Sole24Ore” di domenica scorsa (24 ottobre), con riferimento a questo libro di Shields e alle tematiche da esso trattate.
Ringrazio Nicola e la redazione di Domenica per aver messo a disposizione di Letteratitudine il suddetto contributo.
Massimo Maugeri
* * *
LETTERATURA E NUOVE TECNOLOGIE di Nicola Lagioia
(da “Domenica de “Il Sole24Ore” del 24 ottobre 2010)
Interrogarsi su come la rivoluzione digitale inciderà sulla letteratura è un buon punto di avvio. Ma un’altra valida domanda è: come la letteratura rivoluzionerà la rivoluzione digitale a proprio uso e consumo?
Tolstoj si è servito delle novità tecnologiche della sua epoca per far morire Anna Karenina sotto un treno. Se dai mezzi di trasporto passiamo ai mezzi di comunicazione, la musica non cambia: Thomas Pynchon usa il sistema postale per raccontare la paranoia post-moderna nell’ “Incanto del Lotto 49”; per non parlare della corrispondenza di Goethe e di Laclos.
Simulazioni di realtà, modelli di menti interconnesse: gli eredi di Philip Dick sono pregati di riscuotere alla cassa.
Letteratura e nuove tecnologie II
Chiedersi cosa ne sarà della letteratura con il cambiamento del supporto di cui ci serviremo per leggere – dalla carta all’e-book, al web – è invece un falso problema. Si tratta di un falso problema perché non sono carta, e-book, web il vero supporto della letteratura, bensì il cervello umano. La letteratura è fatta di linguaggio e il linguaggio è la forma di comunicazione più astratta e sofisticata a disposizione perché è l’unica che per esistere non necessita di un supporto che sia fuori di noi.
Siamo in una stanza vuota, insieme a un amico. Pur essendo dei ballerini di danza classica, non riusciremo a riprodurre a beneficio del nostro spettatore un celebre “Lago dei cigni” eseguito da Nureyev con il Royal Ballet nel 1962. Potremo raccontargli “Apocalypse Now” ma non farglielo vedere. Potremo cantargli “My Way” o disegnargli (la stanza non era completamente vuota) “Le muse inquietanti” di De Chirico, ma per fargli fare effettiva esperienza di tutto questo ci sarà bisogno del supporto: cd, dvd, quadro, catalogo d’arte, Nureyev in carne e ossa. Invece, proviamo a sussurrare all’orecchio del nostro amico: “Tutte le famiglie felici si assomigliano tra loro, ogni famiglia infelice è infelice a suo modo” e – traduzione a parte – avremo riprodotto perfettamente l’incipit di “Anna Karenina”. Stessa cosa se, rimasti soli nella stessa stanza vuota, l’incipit in questione ci limitiamo a pensarlo: ” “.
La letteratura è da sempre al di qua e al di là della riproducibilità tecnica. Il papiro, la pietra, la carta, lo schermo… sono semplici stampelle dell’unico hardware di cui il linguaggio necessiti: un cervello di sapiens sapiens. La letteratura è l’opera d’arte nel regno della sua riproducibilità biologica.
Sulla presunta marginalità della letteratura
I romanzi di Dickens dettavano l’agenda dell’intrattenimento pubblico. Oggi il pubblico della letteratura è minoritario rispetto a quello della tv. Ma perché lagnarsene, dal momento che la letteratura è la vera eminenza grigia celata dietro le forme più popolari di rappresentazione? Prendiamo le serie americane: hanno tutte una matrice balzachiana “sporcata” da un po’ di sano realismo tardo novecentesco (“Mad Men” deve tutto a Balzac, deve tutto a “Pastorale americana” di Roth, deve in fondo tutto anche a “Libra” di DeLillo). Il debito dei “Simpson” o di “South Park” verso scrittori come Pynchon è dichiarato, e – letteratura a parte – i reality show hanno il proprio momento di singolarità nelle performance di artisti elitari come Sophie Calle.
Allora: chi vogliamo diventare? Ci accontentiamo di adattare alle esigenze del mercato una delle tante applicazioni della meccanica quantistica o aspiriamo a essere Niels Bohr?
Dittatura della trama
Oggi può suonare ridicolo l’uno due di agnizione e morte che tocca in “Guerra e pace” al principe Andrej. Ma l’obsolescenza di alcune trame significa l’obsolescenza della trama tout court? Non sarà che – già da tempo – la trama non è più un cavallo di Troia del pensiero, ma una sua particolare forma d’organizzazione?
Esempio: è stato detto che la “Recherche” sarebbe un’opera di saggistica letteraria sostanzialmente priva di trama. Ritengo infatti che pochi saggi indaghino i meccanismi della gelosia amorosa come fa Proust nel suo romanzo. Ma per farlo con quella profondità e quella perizia (e quell’economia: in venti pagine di Proust sono racchiusi alcuni volumi di psicologia comportamentale) non servono forse due personaggi come Charles e Odette, due personaggi come Marcel e Albertine, una città come Parigi? E non è questa una trama? Non è l’insostenibile leggerezza di questi dettagli a separare fiction da non fiction?
Fame di realtà
I media utilizzano la realtà per produrre narrazioni a ciclo continuo. Gli episodi di cronaca nera vengono smontati e rimontati in tv con una foga che farebbe sorridere il Queneau di “Esercizi di stile”. Questa continua produzione di narrazioni è, oggi, la lingua del potere, cioè l’antitesi di quella letteraria. L’una è bidimensionale, l’altra restituisce una complessità. La lingua letteraria esercita sulla lingua del potere una funzione di verità: svela cosa c’è dietro. La guerra ai tempi di Tolstoj è diversa dalla guerra ai tempi di Beckett. L’amore ai tempi di Saffo è diverso dall’amore ai tempi di Amici di Maria De Filippi. Non tutte le storie sono state già scritte.
Più reale del re
Non c’è realtà che non affascini un artista. Non c’è realtà che un artista non possa digerire. Chi è mimetico rispetto a chi? I fratelli Wachowski chiesero al filosofo francese Jean Baudrillard una consulenza per il seguito di “Matrix”. Baudrillard declinò l’invito: “non voglio collaborare a un film sulla matrice che la matrice stessa avrebbe potuto realizzare”.
Nicola Lagioia
———–
AGGIORNAMENTO DEL 2 NOVEMBRE 2010
Aggiorno il post inserendo una lezione di David Shields tenuta nel mese di marzo presso l’Università di Richmond.