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Il Gap generazionale del Mito antico – crisi dei Valori sociali o della società?

Creato il 22 maggio 2013 da Wsf

Mito è una parola italiana di chiara origine greca (da μύθος, pronuncia müthos). Significa racconto, trama, là dove per trama si sottintende un intreccio di fili, che a loro volta formano una struttura ben definita, capace di perdurare nel tempo. Non è certo un caso se i vecchi racconti venivano intessuti in arazzi o se Penelope disfacesse la sua tela la notte per poi recuperarla durante il giorno. Il Mito antico ha i suoi “topoi” (schemi fissi),  da cui derivano i suoi orizzonti interpretativi. E questo per una ragione essenziale: il riconoscimento. Una cultura genera i suoi racconti, i suoi miti ed in base ad essi si identifica. Di conseguenza le persone che vi appartengono sono in grado di porre dei limiti tra loro stesse e gli altri, limiti in grado di definirli e quindi renderli riconoscibili. Va da se che l’identità di un soggetto va formandosi in base alle definizioni che esso stesso da del suo se. Un uomo nato nel IV secolo a. C. ad Atene ha dovuto confrontarsi con codici linguistici, sociali e quindi culturali profondamente diversi da quelli di un uomo nato nel 2000 in Italia e ciò ne ha sicuramente temprato il carattere e quindi la personalità (il discorso è ovviamente più ampio e complesso ma è abbastanza chiaro che le persone convertano la realtà che li circonda tramite determinati metaprogrammi, forniti evidentemente dall’ambiente storico in cui hanno l’opportunità di crescere e maturare). Da qui possiamo affermare che l’uomo è il Mito che crea e in cui si identifica. O meglio lo era. In antichità, l’asprezza della vita portava necessariamente gli uomini a vivere in gruppi uniti (ovviamente in modi e contesti differenti), in cui ognuno potesse essere di aiuto all’altro. Il benessere, supportato dalla rivoluzione tecnologica, ha permesso di soddisfare più bisogni contemporaneamente e il più delle volte in maniera del tutto individuale. Il Mito è un collante, un emblema riconoscitivo: se la società non ha più bisogno di gruppi umani che cooperano in perfetta simbiosi, va a cadere anche la necessità di creare nuovi racconti che facciano da mastice. Infatti, oggigiorno, si parla molto spesso di crisi di valori ma il problema non è esattamente questo, perché la storia delle culture ci insegna che i cosiddetti (e abusati) valori mutano in base alle nuove società che si formano grazie agli scontri culturali. Ovvero, nonostante la visione monolitica che l’Occidente ha del suo impianto culturale, ogni volta che nuove realtà comunitarie entrano in contatto tra loro, generano nuove culture e quindi nuove società con nuovi valori e ideologie che sono sicuramente frutto di quelle vecchie, ma puntano al futuro, al cambiamento, alla mutazione. Di conseguenza è errato affermare che il mondo moderno non possieda Miti o valori, non potrebbe esistere o esser pensato senza di essi. Il gap sorge a causa della cosiddetta globalizzazione, su cui si innestano il fantasma del nazifascismo e il senso di vuotezza effimera che il 900 ha lasciato, cose che hanno portato ad una sostanziale spersonalizzazione non solo dell’individuo, ma anche della cultura e quindi della matrice. Siamo figli senza genitori in cui riconoscere i nostri miti, valori e quindi limiti. Ed è un grosso dramma questo, non tanto per far del perbenismo, ma perché il cervello umano è strutturato per apprendere tramite il riconoscimento. Cioè, noi apprendiamo in base a quante più volte vediamo o sentiamo qualcosa o qualcuno. A quel punto possiamo definirlo secondo i nostri personali paradigmi e incasellarlo, e riconoscerlo ogni qualvolta vi abbiamo a che fare. Questo perché l’istinto di sopravvivenza, comunque presente nel substrato della nostra mente, ci spinge a dividere la realtà circostante  tra ciò che è fidato e quindi sicuro e ciò che invece non lo è. A livello culturale accade la medesima cosa: ho bisogno per definirmi di un codice di regole preciso nel quale riconoscere me stesso e di conseguenza i miei simili, perché quel che è riconoscibile è sicuro, quel che è sconosciuto è insicuro. Inutile sottolineare che questa sia, in qualche modo, la base della struttura del pensiero umano, e che  il contatto multietnico e multiculturale conduca ad allargare il proprio spazio mentale: la curiosità, infatti, spinge a voler conoscere, a socializzare, a viaggiare, a scontrarsi ma la globalizzazione pretende, invece, una sorta di livellamento culturale in cui le definizioni smettono di esistere. Un’impalcatura impossibile, quanto improbabile da realizzare se non a patto di mutare completamente le coordinate mentali dell’uomo, in quanto dovremmo poter immaginare un mondo bianco in cui tutto non è armonico, ma identico perché, come il mondo antico ci insegna, l’Armonia è data dall’equilibrio tra le varie forme di esistenza e dalla loro unicità; non possono esistere note perfettamente uguali in una melodia. Ecco perché, non si può parlare di assenza di valori, ma di mancanza di una struttura sociale precisa e contenitiva in cui riconoscerli e unirli. L’Italia poi, a causa delle sue vicende storiche alquanto travagliate, che le hanno permesso di costituirsi nazione in età moderna quasi, soffre maggiormente questo senso di alienamento culturale e fatica a riconoscersi in uno specchio preciso. Questo discorso inevitabilmente a cosa porta? A ciò che ogni giorno possiamo vedere: persone disorientate, che usano miti fittizi per definirsi all’interno del loro fittizio universo sociale. Ognuno ha il suo racconto, il suo mito che purtroppo però non godrà mai di vita eterna, perché non è strutturato all’interno di una dimensione sociale ben definita (immaginate le famose “meteore”). Ed è qui che si innerva la condizione sociale dei cosiddetti “desideri di plastica” tipici della nostra cultura. Una società come quella moderna, che ha rinunciato alla religione, alla mitologia, al dogma, al folklore o a qualsiasi impronta di stampo culturale, e che quindi ha smesso di creare racconti comuni, ha necessariamente bisogno di sostituire questi capisaldi con progetti effimeri, quali le riviste platinate o i format di successo in televisione per fare un esempio banale. Cose che per lo meno danno la possibilità alle nuove generazioni di riconoscersi in un limite comune, di fare “branco”.  Qui si  innesta il vero dramma, perché gli essere umani, al di la di qualsiasi appartenenza sociale, religiosa, etnica o geografica hanno un solo ed unico scopo: riprodursi, mantenere la specie in vita il più a lungo possibile. E se non si provvede a dare ai propri figli una dimensione sociale netta in cui riconoscersi con facilità (ma anche una dimensione sociale contro cui contestare, da ribaltare eventualmente), per la quale scontrarsi, crescere, animarsi, finiremo col creare non uomini, ma bambole incapaci di autodefinirsi e quindi di volere, pensare, crescere e maturare. Bambole alla mercè di falsi miti, introdotti a scadenza temporale, buoni a succhiare sangue, sogni e denaro. Bambole semplici da governare. Con questo discorso vorrei poter focalizzare l’attenzione su un concetto che fu già di Socrate, secondo il quale la società nasce e vive grazie alle sue regole (politiche, sociali, religiose, economiche) che ne sono la spina dorsale. Le regole identificano e permettono al soggetto di scegliere se seguirle o meno. Non può esistere una società senza regole, perché un singolo uomo può decidere di se anche al di la di quelle che sono le leggi (e la storia insegna che quando un modello culturale è superato, nascono gli innovatori) ma una comunità intera per coesistere ha bisogno di una forte identità che la strutturi e caratterizzi. Del resto come si può affrontare un meraviglioso scambio culturale oltre che soddisfacente, se non sappiamo neanche da che cultura proveniamo? E’ ridicolo, dover leggere di episodi in cui il patriottismo viene additato, perché come al solito, oggigiorno, con l’incertezza sociale in cui viviamo, tutto sembra aver perso di valore, tutto sembra negativo o sbagliato. Amare la propria Patria non significa disdegnare quella altrui, ne fare razzismo. E’ un modo parallelo per amare se stessi e la terra che ci ha dato i natali, anche perché l’amore porta cura, e forse la nostra politica ha proprio bisogno di questo: di amore e cura per il Paese.

KLIMT-L'ALBERO3

L’albero della Vita di Klimt

Roberta Tibollo


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