Giuliano era un gatto persiano color miele, obeso, proprio come quello del film di Kiss Me Licia, se vi ricordate. E infatti l’avevo chiamato proprio Giuliano. Però era meno antipatico del gatto della tv. Anzi, a pensarci bene, era semplicemente apatico. Sopportava di tutto: sessioni dalla parrucchiera (io) con acconciature fatte di nastrini legati ai peli, travestimenti da cappuccetto rosso e simili con i vestiti delle mie bambole ad opera mia e delle mie amichette, spupazzamenti tipo peluche da togliere il fiato. Non so perché fosse disposto ad accettare questo mini-purgatorio da parte di una bimba di 8 anni: forse perché nel suo passato aveva sopportato inferni ben peggiori…
Io e mamma l’avevamo trovato un pomeriggio di fine agosto, mentre raccoglievamo more per far la marmellata, lungo i binari morti verso Cecina. Si era avvicinato da dietro, poi aveva iniziato a miagolare, e io non c’avevo capito più niente. Fu amore a prima vista. Nonostante fosse sporco da far paura (e anche pieno di pulci, ma questo l’avremmo scoperto dopo) me l’ero caricato e l’avevamo portato a casa. Il primo periodo mi ha attaccato di tutto (certo, ci vivevo in simbiosi, ma perché solo a me?): pulci, tigna… poi è guarito, e sono guarita anche io.
Ricordo la prima volta che vide la neve: era il 1990 e a Collesalvetti fece una nevicata pazzesca: Giuliano normalmente usciva a farsi una passeggiatina dalla finestra che dava sul tetto. Quando uscì quel giorno inizio a saltare a zampe rigide sulla neve, come fosse posseduto. Dopo un minuto tornò indietro: questa fu la sua brevissima ma intensa settimana bianca.
Quando il tempo migliorava, si metteva dentro le fioriere vuote in terrazza, e le riempiva con la sua ciccia e il suo pelo super lungo. Chiudeva gli occhi e sembrava che sorridesse al sole. Poi, una mattina di maggio, cadde, proprio da quelle fioriere. Forse si era distratto, chissà… certo era un gatto patatone! Lo trovò mamma spiaccicato per terra dopo averlo cercato invano per un’ora. Lo portò in casa e lo mise dentro a una cesta di vimini, sotto al mio letto. Mi ricordo benissimo quando tornai da scuola e mamma mi disse sottovoce che Giuliano era caduto e che non stava molto bene (ti credo, un volo di sei metri…s’era praticamente giocato tutte e sette le vite!). Era stato due giorni in coma, fermo immobile. Noi parlavamo tutti sottovoce e a casa c’era un clima da funerale. Poi il terzo giorno si alzò, come niente fosse, e si scofanò un vassoio di croccantini.
Un’estate l’abbiamo perfino portato in Sicilia! Viaggio in macchina, genitori davanti e lui dietro con me, sofferente. Fece tutto il viaggio a bocca aperta, rantolando per il caldo (l’aria condizionata a quei tempi esisteva solo per i miliardari, credo). Alle soste in Autogrill muoveva tre passetti, beveva un po’, e risaliva in macchina da solo. E se il viaggio fu pessimo (compresa una pipì a 20 km dalla meta, la cui puzza andò via solo quando vendemmo la macchina) la permanenza lo fu ancora di più: rimase spaesato per tutto il mese, e un pomeriggio addirittura scappò: attraversò la strada e si andò ad infilare a casa di un signore sordo; io l’avevo visto dal balcone e gli corsi dietro, entrando come un fulmine in casa di questo pover’uomo che non capiva cosa stesse succedendo. Lo cercai in tutte le stanze fino in camera, sotto il letto.
A natale, invece dell’albero, prediligeva il presepe. Quindi niente salti in alto verso le palline, come fanno tutti i gatti di questo mondo. No, sarebbe stato troppo faticoso! Molto meglio andare a piazzarsi dentro la grotta di Gesù Bambino, ammazzando pastorelli, galline e pecore che incontrava sul percorso, per guadagnarsi un angolo di paradiso, protetto e lontano (ma solo per pochi minuti) dalle mie grinfie.