Il genere western è un monolite a se stante, praticamente...
Creato il 30 luglio 2013 da Veripaccheri
Il
genere western è un monolite a se stante, praticamente irriducibile a
qualsiasi
tentativo di riformularne la proposta. La storia lo dimostra persino
quando,
nel tentativo di rilanciarlo sono accorsi al suo capezzale attori e
produttori
di grido costretti, salvo rare eccezioni – “Balla con i lupi”1990 e “Gli
spietati”1992 -
a constatarne un carattere senza compromessi e legato indissolubilmente ad una
stagione irripetibile del cinema americano. Se poi si tratta di trovare
una
spiegazione a questo “The Lone Ranger”, ultimo di una serie di prodotti escogitati per ravvivare la vulgata con toni da commedia ed esperienze metafisiche, allora il
discorso si fa ancora più scoraggiante, con precendenti di
potenziali campioni come "Wild Wild West", (1999) e "Monsters and Aliens" (2011) che tali non
sono mai diventati. Ed allora ci si potrebbe chiedere per quale motivo il trio Bruckheimer/Verbinski/Deep
tanto oculato nelle scelta dei progetti su cui investire tempo e soprattutto denaro sia stato capace di impatanarsi in un'
operazione così
rischiosa,
tentando di coniugare John Wayne e Gary Cooper a Stan Lauren ed Harold
Loyd.
Eccesso d’onnipotenza forse, visto lo strepitoso successo della saga de
"I Pirati
dei Caraibi"di cui i tre sono stati i principali artefici, o forse il fatto di poter contare su un classico del
genere
come
quello delle avventure dell’improbabile sceriffo, John Reid, e del suo
aiutante
Tonto, un indiano alla mister Magoo,
impersonato manco a farlo a posta da un Johnny Deep, lui si ormai perso
in una battaglia personale alla rincorsa del travestimento più bello del reame.
Un
riferimento quello di Jack Sparrow e della sua banda non del tutto campato in aria se è vero che “The Lone Ranger” sembra in
qualche modo la messainscena dello stesso format , con canyon e
praterie al posto del mare e delle isole, e personaggi, ancora una
volta “in costume”, impegnati a sfidare il male con una comicità picaresca e slapstick all'interno di
uno spirito avventuroso da luna park delle meraviglie. In questo caso c’è di
mezzo una banda di assassini capitanati da Butch Cavendish, ed il proposito di
consegnarlo alla giustizia da parte del cavaliere solitario, diventato tale in
sostituzione del fratello, ucciso dallo spietato manigoldo.
Diviso
in due sezioni, con la prima, introduttiva, che da modo ai personaggi di
presentarsi e di stabilire le dinamiche delle azioni successive, e la seconda
a far la parte del leone, con scontri interminabili e sfide mirabolanti,
“The Lone Ranger”punta molto sulla magnificenza del paesaggio,
nell'intento di far scaturire il mistero e l'imponderabilità del fato
dalla sublime potenza della sua natura
desolata e selvaggia. Ma il talento morfologico del territorio, le doti
funamboliche della
macchina da presa, ed uno spartito di battute non proprio memorabili non
riescono a compensare la ripetizione di un canovaccio di interminabile
durata, con treni in corsa e duelli rusticani duplicati a più non posso. Delusione che riguarda anche gli attori: da Armie Hammer (The Lone Ranger), privo
della necessaria personalità a Johnny Deep (Tonto), a cui viene a
mancare l'effetto sorpresa, quello che aveva preso in contropiede i
cultori del suo cinema predisponendoli ad una sobria accettazione di una trasformazione attoriale diventata pantomima, per non
parlare della presenza bozzettistica di Helena Boham Carter, sempre più
a
suo agio nel ruolo di regina dei freak. Il botteghino per una volta aiuta, decretando un flop così altisonante da mettere in archivio eventuali seguiti.
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