
I 33 minatori rimasero intrappolati a circa 700 metri di profondità. Erano in un rifugio, una specie di gabbia feroce, dove rimasero per ben 69 giorni, senza possibilità di contatti per molte settimane, dividendosi la poca acqua e qualche scatoletta di tonno. Il film segue passo dopo passo il loro lavoro iniziale, le diverse storie individuali, tra il giovane boliviano immigrato e il vecchio a pochi giorni dalla pensione. Poi la rimbombante catastrofe che li rende prigionieri, l’infinita attesa che appare come una lenta agonia. Un film emozionante reso con calore da un cast internazionale non di poco conto con Antonio Banderas, Juliette Binoche, Rodrigo Santoro, Gabriel Byrne. Una vicenda quasi divisa in due mondi, quello degli uomini sottoterra e quello di sopra popolato da donne. Un accavallarsi di racconti, spesso ricchi di allegria, malgrado tutto, e con qualche concessione alla retorica.
Con un’evidente intelligente sensibilità dovuta alla regista messicana quarantacinquenne Patricia Riggen già nota per i suoi “Lemonade Mouth”, “La misma Luna”, “Revolucion”. Cosicché a contrapporsi al racconto sotterraneo si inseriscono madri, amanti, figlie, intente ad allestire una vera e propria lotta di liberazione perché il governo di destra con presidente Sebastián Piñera, esita nei soccorsi e la compagnia San Esteban, proprietaria della miniera, si sottrae dalle proprie responsabilità. Finché alla fine arrivano le trivelle, si stabilisce un contatto e tra mille colpi di scena il 14 ottobre del 2010 uno alla volta i 33 minatori risalgono alla luce, esausti e felici. Li abbiamo visti tutti quanti a Roma sul palco del “Fiamma” circondati dagli attori che hanno preso a prestito le loro facce, accolti da applausi scroscianti. Perché loro ce l’hanno fatta non quei 12 mila minatori che in tutto il mondo, come ricorda il film all’inizio, hanno lasciato la pelle ogni anno. Loro hanno vinto, perché non hanno mollato, non si sono lasciati andare, hanno combattuto egoismi, rivalità, competizioni interne.
L’amaro in bocca rimane sapendo che le inchieste non sono riuscite a provare la colpevolezza dei proprietari della miniera che pure era già stata chiusa nel 2007. Sembra ancora in piedi, invece, la causa civile a carico del Servizio nazionale di geologia e miniere (Sernageomín), accusato di non aver ispezionato la miniera e controllato il rispetto delle norme di sicurezza. Fatto sta che i 33 non hanno ricevuto alcun risarcimento. Qualcuno di loro ha trovato un’altra occupazione, la maggioranza sopravvive come può. Molti accusano problemi fisici e psicologici e godono solo di cure a base di pasticche per dormire. Sono usciti da quel l’orribile carcere sotterraneo ma non hanno trovato la “speranza” che sognavano quando, divorati dal digiuno forzato, sognavano un banchetto pantagruelico con le loro voraci donne accanto. E comunque ancora una volta non si arrendono. Ora il film è diventato, in qualche modo, un’arma di lotta da portare nel mondo. Può servire anche ad altri. Anche nella nostra beata Italia si continua a morire nel silenzio quasi generale. Le statistiche Inail, ad esempio, dicono che i morti sul lavoro da gennaio ad agosto 2015 sono stati 752 contro 652 del 2014.
Continuano a morire nell’indifferenza perché stanno nelle parti basse della piramide sociale, bistrattati da chi sostiene che a questo mondo bisogna solo premiare il merito e la produttività. Eppure meriterebbero di risalire quella piramide visto che a differenza di un qualsiasi manager o consigliere delegato loro offrono il bene più prezioso: la vita. Non è un merito?