di Lorenzo De Donno
I pochi frutti rimasti sulla sommità dei fichi d’india erano turgidi ed invitanti. I bambini, qualche metro più in basso, ne immaginavano già la polpa zuccherina, croccante e granulosa.
Ma quei fichi d’india erano troppo in alto, troppo difesi dalle spine e dalle tele impolverate di grossi ragni marroni, nascosti nel segreto dei loro bozzoli.
Nell’orto era rimasto un solo, unico, grande, melone giallo. Era un melone speciale. Tutti in famiglia sapevano che era il più bello, quello che non sarebbe stato mangiato perché andava portato a completa maturazione, quello che avrebbe dato i semi per la piantagione dell’anno successivo. Il nonno li avrebbe essiccati con cura e conservati nella credenza, in una bottiglia con il tappo automatico perche non “prendessero l’umido” , fino alla stagione della successiva semina.
I bambini avevano fame, avevano sete dal gran giocare sotto il sole del pomeriggio. Uno sguardo d’intesa e il melone fu strappato dalla pianta, che lo difese fino a quando non si lacerò l’ultimo filamento del grosso picciolo e poi si ripiegò su se stessa, esausta dalla lunga gestazione del suo frutto perfetto.
Lo portarono, con gran fatica, sotto le fronde di un noce, nell’angolo più remoto del campo, mentre piccole cavallette dalle elitre rosse, staccandosi dagli steli secchi della biada, saltavano all’impazzata incrociando i loro voli fra le gambe dei ragazzi. Neanche la possibilità di fare l’incontro più terrificante, il grande serpente nero, che sconfinava spesso dalla macchia vicina e si crogiolava sul muretto a secco, fu un convincente deterrente.
Uno di loro corse a prendere dal casolare un vecchio coltello da cucina.
La mentuccia sprigionava un profumo fresco e pungente sotto i sandali mentre il succo del melone, addentato a grandi morsi, scorreva sulle le gote paonazze e gocciolava sulle canottiere sudate.
Quando ne furono sazi, e i loro stomaci tesi come piccoli otri, i ragazzi scavarono una buca nella terra riarsa e friabile e vi nascosero semi e bucce del melone. Nessuno avrebbe saputo…-.
……
(Epilogo con “cambio di registro” in prima persona plurale: Nessuno seppe mai dove occultammo i semi preziosi. Negammo sempre, anche quando ci fecero vedere le tre caravelle, con le vele al vento, di una bella moneta da 500 lire, scintillante d’argento…).