Ieri ho citato un post vecchio di tre anni, che e’ anzi il primo di una serie di tre consecutivi in cui racconto alcune storie risalenti all’inizio della mia avventura a Tokyo. A rileggermi sembro uno sbarbetello sprovveduto che sbatte la faccia contro la cultura giapponese… invece stiamo parlando di eventi accaduti neanche tre anni e mezzo fa.
Non ho problemi ad ammettere che col senno di poi rifarei tutto in maniera squisitamente opposta. Parlo dei miei rapporti interpersonali con le tipe di cui ho narrato in quei post, e di altre di cui ho raccontato in quel periodo. Il mio problema e’ che ero un italiano che veniva da un’esperienza in Australia, due paesi dove i rapporti sono assolutamente franchi e schietti. L’errore che commettevo di continuo era quello di essere troppo diretto, ma soprattutto troppo brusco, troppo ansioso. Cercavo amici in cinque minuti (come la Speedy Pizza Findus) in una terra in cui le amicizie nascono solo quando le coltivi per anni.
Bisogna dire che quest’esperienza ha cambiato (e di parecchio) il mio modo di pormi nei confronti della gente. Ho imparato che quando un giapponese ti diventa amico, allora e’ un amico vero. Con quelli/e che conosci appena, al contrario, ci sono delle distanze minime e delle regole d’oro da rispettare e che non vanno infrante mai. E posso dirvi? Preferisco per certi versi questo modello al nostro, nel quale a parole ti diventano tutti amici con una facilita’ impressionante, e poi ti prendi le coltellate tra le scapole.
Ma vi dicevo delle regole da non infrangere. La prima e’ che non bisogna aspettarsi niente da nessuno. Suona brutto da dire, ma bisogna pianificare per se stessi. Nel post citato racconto delle due tipe che vogliono andare a casa e di me che mi lamento perche’ mi lasciano solo fino al primo treno. Il problema li’ e’ che io venivo da una realta’ (anche un po’ campagnola, se vogliamo) in cui ci si incontra, si sta tre ore a decidere dove andare per non scontentare nessuno, si sta insieme e si finisce tutti insieme, e quando uno vuole andare a casa si torna tutti. In pratica il classico modello della compagnia o comitiva all’italiana. Invece non funziona cosi’: si arriva a qualsiasi ora e si pensa per se’, quando e’ il momento di tornare. Succedesse ora, non vedrei nemmeno il problema, e se qualcuno mi dicesse che devo aspettare il primo treno con lui lo guarderei anch’io come si guarda un matto.
La seconda regola e’ che non bisogna perdere la calma, mai. Nella nostra cultura una persona che mostra le sue emozioni anche agli sconosciuti e’ considerata una persona genuina, vera, sincera; al contrario per loro e’ sinonimo di superficialita’, e una persona cosi’ non viene presa sul serio. La gente va e viene, e se c’e’ bisogno di chiarirsi per qualche incomprensione lo si fa con gli amici veri, non certo con gli sconosciuti. Per noi italiani la ricerca del confronto e del chiarimento e’ una cosa dovuta, un modo per capirsi meglio. In Giappone invece il chiedere spiegazioni significa infrangere la privacy delle persone. Un po’ come in Italia quando devi inventarti il mal di testa se non hai voglia di uscire con qualcuno, mentre in Giappone puoi semplicemente mandare un messaggio con scritto “scusa oggi non esco”, e nessuno ti chiede spiegazioni.
La terza e’ che i rapporti uomo-donna sono totalmente diversi dai nostri. Quando uno va in Giappone deve riprogrammare del tutto le sue tattiche, perche’ le donne si aspettano comportamenti completamente diversi da noi.
La quarta e’ un po’ un corollario della seconda: non bisogna prendere niente troppo a cuore, soprattutto nella Metropoli Tentacolare dove tutto scorre e tutto passa, e chi c’e’ c’e’, mentre chi non c’e’, appunto, non c’e’.
Ripensando agli eventi passati, avrei visto molte situazioni con un’ottica diversa, e avrei agito di conseguenza. Gli errori sono stati tanti e sono stati grossolani. La tipa del cane bagnato di latte si aspettava una mossa molto piu’ decisa da me, mentre io abituato alle italiane cincischiavo portandola a cena e aspettavo dei feedback che arrivavano in maniera totalmente sballata. Invece andava portata diretta in hotel dalla stazione, altro che fuori a cena. Piu’ la portavo fuori a cena e piu’ lei pensava di non piacermi e che io fossi solo alla ricerca di un’amica, e piu’ mi trattava da amico piu’ tentennavo nel provarci alla fine della cena. Idiota di un albino: nel dizionario giapponese non esistera’ nemmeno tra mille anni il concetto di cena tra giappina e amico maschio conosciuto da poco che non piace fisicamente ma e’ solo amico. Il messaggio che non passava l’ho capito solo a posteriori: se inviti un’italiana a cena e lei ti dice di si, allora ti ha detto di si per la cena. Se inviti una giappina a cena e lei ti ha detto di si, allora ti ha detto di si e basta, dopocena compreso, tutto compreso.
Momoka e la giappo-italica invece non le ho piu’ riviste per un semplice motivo, palese proprio: cercando il chiarimento ho mostrato di prendere la cosa troppo a cuore, ho perso la calma e ho dimostrato quella che ai loro occhi e’ solo instabilita’ e debolezza. Non veniva richiesto niente di tutto cio’: da loro a me veniva richiesto di fare il maschio gaijin, ovvero farle divertire, ballare, bere con loro, e se nasceva l’atmosfera giusta portarne a casa una (o piu’ d’una, chi lo sa) a fine serata. Succedesse oggi, capirei al primo istante la richiesta sballata del tipo giappo che si era intromesso nella nostra serata, me ne libererei in tempo zero+, andrei in disco con entrambe, farei le mosse giuste, eviterei quel bacio in pubblico, lascerei passare la serata pronto a invitarne fuori una sola una seconda volta, questa volta per una cosa a due, cena + dopocena.
Concludo con un pensiero. Ieri sera mi sono ritrovato a ripercorrere mentalmente non solo questi ma miriadi di altri eventi che mi sono capitati in quei primi tempi in Giappone. La cosa che mi ha stupito e’ che piu’ ci ripensavo, e piu’ ne capivo; e alla fine sono rimasto con la netta sensazione di essermene andato non appena avevo iniziato veramente a capirci qualcosa.
Ma forse e’ proprio per questo che me ne sono andato, chi lo sa. O forse, magari anche no.