La notizia dell’apertura, a Roma, di una sezione del cimitero Laurentino dedicata ai “bambini mai nati” (“Il giardino degli angeli”), è ormai vecchia di un paio di giorni, ma vale la pena di spenderci qualche riflessione. Non si tratta di una vera novità: la possibilità di dare sepoltura ai feti non nati “a causa di un’interruzione di gravidanza spontanea o terapeutica”, secondo le parole del vice sindaco di Roma, Sveva Belviso, è già prevista in alcune città d’Italia. Quello che mi preme, in queste righe, è un’analisi del significato di un atto come questo, nel clima culturale italiano, e della risonanza mediatica che ha avuto (ci sono state una cerimonia ufficiale di inaugurazione, e diverse dichiarazioni di personalità politiche del Comune di Roma).
Innanzi tutto, vista la delicatezza del tema, intendo mettere bene in chiaro un punto: non intendo qui mettere in discussione il desiderio o la necessità per alcune mamme o alcuni genitori di dare sepoltura a un bambino non nato. Questa è una faccenda del tutto intima e privata, che non spetta a nessuno giudicare, e non è nell’interesse di questo post. Così come non intendo discutere l’opportunità o meno di parlare di “bambino” o “feto” o “prodotto del concepimento”: per come la vedo io, ai fini del dibattito sull’aborto la questione non ha la minima importanza, semplicemente perché tale dibattito non può prescindere dal fatto che la gravidanza è qualcosa che si svolge solo e soltanto nel corpo di una donna, e sopra a quel corpo e alla sua volontà non si può passare sulla base di qualsivoglia definizione di ciò che in quel corpo cresce e si sviluppa (se qualcuno in modalità “Ferrara” avesse la tentazione di lanciare l’allarme sulla “emergenza aborto”, gli consiglio anzitutto di leggersi il report annuale del Ministero della Salute).
Chiarito ciò, vengo dunque al punto: trovo estremamente sospetto che si pubblicizzi in modo così plateale, definendola come “Un inno alla vita” (dichiarazione del consigliere di Roma Capitale Fabrizio Santori), un’iniziativa che poteva essere gestita in modo discreto (Luisa Pronzato richiama l’opportunità di un rispettoso silenzio, e conduce un’analisi molto sentita su La 27esima Ora), e che invece mi sembra – come spesso accade, peraltro – essere soltanto un modo per lanciare un messaggio, l’ennesimo messaggio di natura ideologica sulla maternità e le scelte ad essa legate. Che necessità c’è, e che senso ha, definire l’inaugurazione di un cimitero “Un inno alla vita”? Sarei curiosa di saperlo. Come se, per converso, scelte di altro tipo fossero da classificare come “Un inno alla morte”.
Quindi, a prescindere dal caso specifico, volendo innalzare un “Inno alla vita” lo si potrebbe fare in molti modi: ad esempio, garantendo servizi adeguati alle famiglie con figli disabili (qui finalmente una testimonianza lontana dalla solita retorica), alle famiglie povere che fanno fatica a mettere un piatto in tavola – non parliamo di mandare i figli a scuola, alle donne che un figlio magari lo vorrebbero anche, ma non se lo possono permettere, o se decidono di averlo, sanno di aver già firmato le dimissioni in bianco, in previsione di quel giorno. E l’elenco potrebbe continuare fino all’anno prossimo.
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