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“Il Giardino dei Mirti” di Raffaele Puccio – una recensione di…

Creato il 20 ottobre 2013 da Rosebudgiornalismo @RosebudGiornali

Copertina libro di R. PuccioGiuseppe Nativo. E’ centrata su un nodo fondamentale dell’esistenza umana, i sentimenti che vanno oltre l’esistenza terrena sebbene siano immersi in essa, la recente fatica letteraria (“Il Giardino dei Mirti”, Tipolitografia Dipasquale e Pennacchio, Ragusa 2013, pp. 232) di Raffaele Puccio, scrittore e poeta ibleo, che regala ai lettori una storia gradevole, ben strutturata, dove gli affetti confluiscono e si intersecano attraverso i due protagonisti.

Giarratanese doc, uomo dal carattere mite e di poche parole, ambientalista accanito, Puccio, già docente di materie letterarie, è buon conoscitore della lingua latina (sue le “Liriche d’amore della latinità”, una ponderosa antologia di brani di poeti latini con traduzione italiana in versi). Ama trascorrere le giornate in bici tra la marina ed il suo fazzoletto di terra lontano dal caos tumultuoso della giungla urbana. In prosa ha esordito con “La capra d’oro e altri racconti” (2010), affettuoso omaggio al paese natio e alla tradizione culturale iblea. Recentemente ha pubblicato, in collaborazione, il volume “Colapesce” ampia rivisitazione della nota leggenda e “Arcobaleni” (2013) silloge poetica in cui denuda la sua anima in versi semplici ma molto profondi dove emergono i valori più veri che segnano un legame forte con le sue radici.

“Il Giardino dei Mirti” ha come elemento principe l’incontro di due giovani, Giulio e Viviana, attorno cui ruota l’intreccio impregnato di tenerezza senza debordare nel sentimentalismo. Due anime, due cuori, che con compostezza si amano raccontandosi della loro vita esibita come un libro aperto. La loro fiamma resiste dinanzi alle inevitabili difficoltà che vengono superate attraverso una dimensione esistenziale vitale. L’autore, però, non lascia nulla al caso. Anche i nomi dei due protagonisti hanno una loro peculiarità semasiologica. Viviana può in parte derivare da Bibiana il cui significato è “colei che ha vita”, oppure continuare il latino imperiale Vivianus, augurale basato sul verbo vivere. Il nome Giulio potrebbe derivare dalla parola greca hylé ossia bosco, e quindi significare “del bosco”. Del resto il titolo dato al romanzo, “Il Giardino dei Mirti”, ha proprio il sapore di un luogo edenico. Il mirto, che deriva dal greco myrtos (essenza profumata), “è pianta sacra ad Afrodite, dea dell’amore” come specifica il prefatore Federico Guastella.

Anche i tredici tasselli in cui si snoda il peculiare sentiero narrativo posseggono una loro armonia. Nella geometria sacra il numero “tredici” simboleggia l’eterna distruzione e creazione della vita. Tredici ha anche un significato astrologico in quanto la somma dei primi 13 numeri dà come risultato 91 che è il numero di giorni di una stagione. La stagione dell’amore, dell’incontro tra Giulio e Viviana. Ma è anche la stagione della primavera, momento in cui tutta la natura si risveglia essendo gravida di nuovi fermenti. Anche il periodo in cui si svolge il romanzo, gli anni Sessanta, è un momento pieno di fermenti sociali e politici “che si manifestavano – scrive Puccio – in modo problematico, tale da destare forti perplessità”. In tale contesto si snoda la vicenda dei due innamorati che diventa anche il racconto di quella società nel suo svolgersi.

Altra peculiarità è rappresentata dai titoli dei capitoli e dalle citazioni poste in esergo. Tale mutua simbiosi costituisce l’impronta che Puccio ha voluto dare all’intera architettura narrativa caratterizzata da una scrittura che “deve moltissimo agli studi umanistici dell’autore, raffinato traduttore di classici latini, ed essa non manca di farsi colta, pur mantenendo tonalità di freschezza e di visionarietà poetica”, come delicatamente annota il prefatore.

La partitura strutturale è bilanciata dalla coerenza della misura stilistica, dalla omogeneità dei toni e degli accenti, in un peculiare intreccio narrativo dal sapore autobiografico in cui la scrittura s’inarca in uno strenuo sforzo di oggettivazione delle percezioni visive tendendo a riprodurre l’evidenza cromatica e la perspicuità dell’immagine e dispiegandosi in una prosa dalla tessitura iconica e delicata.

La pagina scritta parla sempre, coinvolge i suoi lettori, li trasferisce in una tensione partecipativa continuamente rinnovabile nel tempo e nello spazio dove finezza di analisi psicologica e scavo interiore si susseguono, pagina dopo pagina, creando così un romanzo intimo dove i raccordi esplicativi e le giunture discorsive obbediscono ad un’accorta strategia affabulativa posta in essere dall’io narrante di Raffaele Puccio.

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