Il ritorno del Duca Bianco. Così recita il refrain di uno dei suoi pezzi più famosi, Station To Station (dall’album omonimo, 1976), tanto famoso da finire nella galleria dei suoi personaggi e soprannomi.
Stiamo parlando naturalmente di David Bowie che, scomparso praticamente dalla scena da sette anni, riappare magicamente sulla scena per merito del web, non si sa ancora se con una mossa studiata o una trovata di qualche pirata informatico.
L’ex Ziggy Stardust infatti ha fatto ormai lasciare le tracce di sè, dopo lo sfortunato e affrettato epilogo del Reality Tour, quando fu costretto a sottoporsi a un intervento di angioplastica.
Da allora non è uscito più nessun album inedito, e dunque dal 2003 non si hanno più novità discografiche che portano il nome di Bowie, salvo qualche estemporanea uscita in edizione d’anniversario dei suoi vecchi album, o qualche disco live.
Le uscite pubbliche sono state altrettanto estemporanee, e nonostante si giuri sulla sua perfetta salute e lo stato di forma, nel corso di questi anni, sono usciti anche inquietanti rumours sulle sue reali condizioni.
Eppure la rete ci fa questi giorni omaggio di un inaspettata sorpresa.
É infatti disponibile online, presso i soliti torrent e siti di download, il misterioso album Toy, del quale era stata programmata l’uscita nel 2001, ma causa incomprensioni e litigi con la casa discografica di allora, la Virgin, non ha mai visto la luce.
Toy presenta un collage di 14 pezzi, la versione di alcuni dei quali è assolutamente inedita. La maggior parte dei pezzi è una rivisitazione dei suoi vecchi brani giovanili degli anni 60, il cosidetto periodo Deram, dal nome della casa discografica per il quale lavorava Bowie all’epoca.
L’apertura è affidata a Uncle Floyd, che altri non è che la prima versione di Slip Away, ovvero di uno dei pezzi che fecero parte di Heathen, il penultimo album di Bowie, uscito nel 2002. Non si notano differenze particolare con il brano edito, se non una certa dilatazione che non conferiscono alla canzone uno spessore maggiore. Lo stesso dicasi per Afraid, identico missaggio e titolo per un pezzo che di Heathen era uno dei meno entusiasmanti.
La prima vera chicca è rappresentata da Baby Loves That Way, rielaborazione di un brano del 1965 che è stato presente solo in un b-side del singolo giapponese di Slow Burn. Un bel brano arioso sul quale la voce di Bowie e l’arrangiamento più sofisticato rispetto all’originale tocca le corde emotive di molti vecchi fan.
Aggressiva e ridondante è invece la cover I Dig Everything, una canzone del 1965, che si sente oggi per la prima volta.
Il Duca Bianco le conferisce una insospettata modernità e si erge come simbolo rispetto a quello che era probabilmente l’intento originale dell’operazione, ovvero quello di scoperchiare vecchie perle dimenticate in fondo al mare di una produzione vastissima.
Conversation Piece è delicata e quasi commovente, dalle atmosfere soffuse e sempre eleganti, che rallenta il ritmo rispetto alla canzone originale del 1970. Questa versione era già presente nell’edizione deluxe di Heathen.
Ma quello che considero il capolavoro di queste rivisitazioni è Let Me Sleep Beside You, un brano che già nella sua versione originale era fra i più validi, ma in questa rielaborazione in chiave moderna, acquista nuovo vigore, grazie alla forza espressiva del Bowie maturo e a una sezione ritmica più aggressiva.
Quasi del tutto inedita è invece Toy (Your Turn To Drive), che fu soltanto disponibile su I-Tunes nel 2001. La canzone riecheggia gli umori un po’ oscuri di Heathen e pur non essendo certo un brano fra i più memorabili, avrebbe sicuramente fatto la sua figura nel penultimo lavoro bowiano.
Hole In The Ground è la ripresa di un pezzo del 1970 e ricorda le atmosfere di Hours…(1999) senza lasciare grandi rimpianti, e Shadow Man (1971, b-side di Slow-Burn ed Everyone Says Hi) si trascina un po’ stancamente.
Più coinvolgente, ma sulle stesse linee un po’ monocorde è In The Heat Of The Morning (1968) la cui cover è assolutamente inedita. You’ve Got a Habit of Leaving (1965, anch’essa b-side dei singoli Slow Burn e Everyone Says Hi) invece finalmente rialza i toni di un certo piattume che cominciava a farsi strada, e anche lui tocca certi vertici emotivi nei sostenitori di vecchia data che ricordano il pezzo originale rivisitato in maniera così sentita e vigorosa.
Chiude infine un terzetto di inedite cover: Silly Boy Blue (1968), eccellente e maturo a dispetto di una prima pubblicazione originale un po’ troppo ingenua, Liza Jane (1964, forse il primo pezzo mai pubblicato da Bowie) che si mette i panni di un blues (in maniera non del tutto convincente) e uno dei classici Deram, The London Boys (1965) che da antica ballata inno dei mods dell’epoca si trasforma splendidamente in malinconico e sentito ricordo di tempi andati. Anche questa è una delle rivisitazioni più riuscite e commoventi.
Insomma Toy, dieci anni dopo quella che doveva essera la sua paventata uscita mostra i pregi e i limiti che poteva aspettarsi da una simile operazione. Destinata principalmente a un pubblico di fan del mito del Duca Bianco, i quali, però, come il sottoscritto, non possono che chiudere con un’osservazione.
Quella di quanto ci manca il vecchio Bowie, e la speranza che presto possa tornare e uscire dal suo guscio dorato.
E farci dire per l’ennesima volta: “The Return Of The Thin Duke”…