Magazine Cultura
di Samantha Lombardi
Il gioco è un aspetto basilare nella vita dell’uomo di tutte le età ed è palese che le diverse civiltà se li passarono l’una con l’altra. A poco a poco anche i Romani li ereditarono tutti dalle civiltà precedenti e a Roma si giocò molto. Giocarono i piccoli scommettendo le noci, giocarono molto meno ingenuamente gli adulti e quando il gioco diventava meno innocente e più rischioso, si giocava per denaro riuscendo spesso a perdere vere e proprie fortune. Ovidio in una sua opera ( Ars amatoria) scrive: Sic, ne perdiderit, non cessat perdere lusor (Così ai dadi il giocator perdente per non restare in perdita continua a perdere). Naturalmente, per tutelare tutti i cittadini dai rischi che derivavano dal gioco d’azzardo, fin dall’epoca repubblicana si era anche cercato di promulgare delle apposite leggi, una fra queste era la Lex Alearia. Questa legge stabiliva, infatti, quali fossero i giochi proibiti e li elencava in una lista:
. Capita aut navia (testa o croce)
. Tali (astragali)
. Tesserae (dadi)
. Digitus micare (morra)
. Parva tabella lapillis
. Ludus Latruncolorum (speciale tipo di dama che richiedeva l’uso di una tabula lusoria (scacchiera) e pedine)
. Duodecim Scripta (dodici righe, richiedeva anch’esso l’uso di una tabula lusoria e pedine)
Alcuni di questi giochi sono, ancora oggi, considerati giochi d’azzardo; è possibile che anticamente venivano vietati perché si pensava che forti puntate e scommesse ne potessero alterare il carattere . Del resto era evidente che per vincere o perdere grosse somme non c’era bisogno di giocare ai dadi bastava scommettere sulle cose più varie.
Ne è d’esempio un gioco praticato nell’antica Roma, che non aveva bisogno né di scacchiere né di dadi, parliamo precisamente di Navia aut capita che vuol dire “Testa o Nave” perchè la moneta più adatta a questo gioco aveva incisa, da una parte la prua di una nave e dall’altra la testa di Giano. Indovinare quale faccia sarebbe uscita non bastava, perciò si scommetteva su una delle due facce a quel punto il gioco da divertimento diventava un gioco d’azzardo completamente a sé stante. Ai giorni nostri questo gioco è ancora praticato ed è conosciuto come Testa o Croce perché la prima moneta del Regno d’Italia aveva questi due simboli impressi uno nel “recto” e l’altro nel “verso”.
Per chiarire poi le regole di questi giochi abbiamo le informazioni che troviamo nelle varie fonti letterarie; sappiamo infatti che sul gioco furono composti addirittura interi volumi e sicuramente sui giochi d’azzardo nacquero vari trattati, uno di questi venne scritto perfino dall’imperatore Claudio, accanito giocatore. Oggi di tutte queste opere resta soltanto l’Onomasticon, un trattato in dieci libri scritti da Giulio Polluce. La parte che riguarda i giochi è il libro IX.
Fra tutti i giochi d’azzardo, sicuramente, il preferito fu l’astragalo, vi si giocava con le ossa brevi ricavate dalle zampe posteriori delle pecore, montoni ed altri animali, più precisamente dalle ossa articolate poste tra la tibia e il perone. Con gli astragali giocavano tutti: ragazzini, uomini e addirittura fanciulle; erano uno strumento di gioco così diffuso che vennero ricopiati in vari materiali: dall’economica terracotta al piombo, dal marmo ai più preziosi realizzati in avorio, argento e addirittura in oro. In alcune partite venivano usati pregiati astragali e sfarzosissime tabulae lusoriae (scacchiere) in cui si perdevano o vincevano cifre astronomiche.
I giovanissimi giocavano nientemeno che sul pavimento. Questo è quanto vediamo in una copia romana di una statua ellenistica, (II secolo a. C.), proveniente da uno scavo al Celio e oggi conservata a Berlino, nel Museo Pergamon: la ragazza pettinata con i capelli tirati e un leggero abito, sta accovacciata per terra e guarda pensierosa gli astragali che ha appena lanciato davanti a se. Un altro esempio è la lastra marmorea dipinta con tratto leggero (I secolo d.C.) proveniente da Ercolano e attualmente esposta al Museo Archeologico di Napoli, reca una scena firmata dal pittore Alexandros Athenaios, dove appaiono, in primo piano, due fanciulle che giocano con gli astragali. Il pittore ha indicato anche il loro nome: Agalaia e Ilaria, mentre, le donne in secondo piano sono Phoibe, Latona e Niobe.
In questo diffusissimo gioco si giocava con quattro astragali, su ognuno, erano presenti solo quattro facce utili, indicate dai numeri 1,3,4 e 6, le altre due, che corrispondevano alle facce con i numeri 2 e 5, non potevano mantenersi in equilibrio a causa della forma arrotondata dell’osso. Giocare una partita era incredibilmente difficile: ad ogni lancio veniva attribuito un valore legato alla combinazione delle quattro facce, dalla disuguale caduta dei quattro astragali ne scaturivano ben trentacinque combinazioni aventi ciascuna un proprio nome. Oggi, di tutti questi termini, se ne conoscono solo alcuni: il colpo del cane era il lancio peggiore che poteva capitare e derivava dalla caduta dei quattro astragali con tutte e quattro le facce corrispondenti al valore 1; il colpo migliore, quello che ciascun giocatore si aspettava, era senz’altro il colpo di Venere, quello in cui le facce dei quattro astragali erano una diversa dall’altra. Inseriti tra questi vi erano anche il colpo di Efebo, Alessandro, Antigono, Stesicoro, Solone, Euripide e altri. Il valore totale del tiro degli astragali non era affatto rappresentato dalla semplice somma numerica dei valori delle singole facce ma dalle combinazioni che derivavano dal lancio contemporaneo degli stessi. Indispensabile era la totale conoscenza delle regole del gioco e del valore delle singole combinazioni e che insieme costituivano una vera e propria scienza. Man mano che la partita andava avanti le puntate accrescevano il piatto e si seguitava a giocare fino a che uno dei giocatori aveva la fortuna di realizzare l’atteso colpo di Venere, la vincita era costituita da tutta la somma ottenuta dalle scommesse.
Il gioco degli astragali, lo si può considerare come una forma primordiale da cui deriva quello dei dadi, altro gioco d’azzardo molto diffuso a Roma. Anche se i dadi erano già noti in Egitto e in Oriente, la leggenda ne attribuisce l’invenzione a Palamede, uno dei capi greci, durante l’assedio di Troia. L’Odissea presenta i Proci concentrati a giocare ai dadi davanti alla reggia di Ulisse. Numerosi vasi greci sono decorati con scene dello stesso genere, tra cui la famosa anfora attica a figure nere (540-530 a.C.), rinvenuta a Vulci, oggi, al Museo Gregoriano Etrusco Sala XIX in Vaticano, doppiamente firmata da Exekias, vasaio e pittore, dove viene rappresentato un episodio lontano dalla tradizione dei poemi omerici: Achille e Aiace in armi che, secondo attempate interpretazioni di studiosi, sono intenti al gioco dei dadi. Queste pitture sono presenti oltre che nell’arte etrusca e romana anche in quella medievale.
Troviamo notizie sul gioco dei dadi in vari autori del tempo; inizialmente, sembra che si giocasse con tre dadi che si combinavano in 316 accostamenti diversi; nel tempo si cominciò ad usarne soltanto due, in questo caso ne derivavano solo 36 combinazioni. I dadi antichi mostravano una forma cubica, come quelli attuali, realizzati generalmente in osso. Sono giunti fino a noi, ben conservati, diversi tipi di dadi; li troviamo praticamente in quasi tutti i Musei con i numeri sulle facce che portano i numeri dall’1 al 6 rappresentati da semplici puntini o piccoli cerchi con un punto nel mezzo. Anche le loro dimensioni sono molto diverse: si hanno dadi molto grandi di 2,5 cm per lato, e quelli molto più piccoli di soltanto 7 mm. Nel Rheinische Landesmuseum di Bonn si trova un anello da pollice che nascondeva nel proprio castone addirittura due dadi che dovevano senz’altro essere più piccoli di 7mm.
Abbiamo la testimonianza di dadi ancor più particolari: si tratta di due dadi etruschi che si trovano a Parigi nel Cabinet des Médailles, provenienti da Tuscania, presentano sulle loro facce soltanto sei parole:mach-thu-zal-huth-ci-sa. Non tutti gli studiosi sono d’accordo ad attribuire, a questi termini etruschi, la tradizionale numerazione dei dadi. Un altro dado, questa volta latino, molto particolare, è stato ritrovato ad Autun (Francia), sulle sue sei facce sono incise altrettante incomprensibili parole e ognuna di esse è formata da un numero diverso di lettere: da una parola di una sola lettera si arriva ad una breve frase di sei:I-va-est-orti-Caius-volo te-.Fra tutti sicuramente i più originali, ma non tanto pratici per giocare, sono quelli realizzati in argento e custoditi a Londra nel British Museum: Modellati in una schematizzata forma umana, questo omino è rappresentato con le gambe corte, seduto con le mani sui fianchi; il suo corpo reca vari piccoli fori che corrispondono ai numeri.
I dadi, piccoli strumenti del gioco d’azzardo, sono stati nel tempo realizzati in vari materiali, tra cui: osso, avorio, legno, metallo, ambra, cristallo, argento ecc., mentre al giorno d’oggi l’uso di materie plastiche è praticamente universale.
Nel gioco, i dadi vengono lanciati con una mano o con un apposito bossolo (fritillus), nella caduta la loro faccia visibile rivela numeri casuali. Numerosi sono i modi di giocare, il più comune è quello che dà per vincitore chi consegue il punteggio più alto sommando i punti delle facce superiori dei dadi gettati. Il numero che ha la più alta probabilità di combinarsi è il 7.
Il gioco dei dadi ha inoltre molte possibilità di prestarsi a trucchi e imbrogli e dove c’è il gioco c’è inevitabilmente anche il baro. Pompei ci restituisce nascoste, dai lapilli eruttati dal Vesuvio, varie testimonianze del passato: si tratta di dadi, piuttosto grandi, che sul lato opposto al 6 presentano una piccola cavità dove i bari erano soliti nascondere un pezzetto di piombo. Non possiamo escludere a priori che anche in tempi così lontani i dadi “truccati” abbiano fatto piangere un gran numero di sprovveduti giocatori e sicuramente di metodi per barare ce ne dovevano essere tanti. Le fonti ci informano che lanciare in un modo “particolare” gli astragali si poteva pilotare la loro caduta per realizzare il famoso colpo di Venere e, anche se era un po’ più difficile , si potevano guidare, con un po’ di abilità, a proprio vantaggio, anche i dadi. E’ evidente che nell’ambiente, con queste “vittorie un po’ dubbie”, si cominciasse a diffidare di questi giochi correndo ai ripari. Per questo motivo, sempre più spesso, si richiedeva ai giocatori di usare i bossoli (fritilli) una specie di bicchieri, per lanciare astragali o dadi. Ancor più sicure erano ritenute le torrette (turriculae), una specie di marchingegno, all’interno vuoto, con piani inclinati verso il basso dove la presenza di tacche permetteva ai dadi di rimbalzare fino all’uscita da cui scivolavano all’aperto; il percorso dei dadi escludeva che si potessero fare giochi di prestigio con le mani.
Dalla fine della repubblica, il gioco più complesso dell’antichità è senza dubbio quello che veniva chiamatolatrunculi e richiedeva una grande strategia di gioco; la scacchiera, con cui si giocava, era quadrata ed era paragonabile ad un vero e proprio campo di battaglia; vincere significa ricevere l’aureola dell’imperator. “Latrunculi” nome particolare dato a questo gioco non necessariamente significava ladroni, nel senso lato, almeno fino all’epoca di Cicerone perché da allora questa parola prese il significato che gli si attribuisce oggi. Non si è stati in grado di ricostruire le regole del gioco perchè non ci sono giunte informazioni soddisfacenti, possiamo solo ipotizzare che fu, sicuramente, l’antenato degli scacchi e della dama e fu il “gioco principe” nella vita degli antichi Romani.
Da alcuni complicati testi dell’epoca si evince che, per giocare al latrunculi, occorreva, come abbiamo già enunciato, una scacchiera quadrata e svariate pedine, bianche e nere, ognuna con una forma diversa. Questa diversità probabilmente era necessaria per lo svolgimento del gioco stesso, anche se non è chiaro quale fosse il compito delle pedine che venivano indicate con i nomi di mandrae, milites o bellatores. Alcuni studiosi hanno ipotizzato che si trattasse invece di tre tipi di pedine e che le milites e le bellatores fossero addirittura due varietà con diverse caratteristiche, distinte, probabilmente, per forma e per decorazione. Ma quante pedine occorrevano per giocare? Il Goold, dalla traduzione dei Tristia di Ovidio, scrive che per illatrunculi ogni giocatore aveva a disposizione 30 pedine; ovviamente, la scacchiera doveva avere, inevitabilmente, 15 caselle in orizzontale ed altrettante in verticale. Nella Basilica Iulia vi è la testimonianza di una scacchiera dove sono incise solo 64 caselle, 8 per ogni lato, quindi i due giocatori avevano a disposizione 16 pedine ciascuno. Sempre secondo quanto scrive Ovidio il movimento delle pedine mandrae,milites e bellatores seguiva sicuramente una linea retta ed era solo in questo verso che potevano spostarsi avanti o indietro per raggiungere il lato opposto dalla posizione di partenza. E’ scontato che, come avveniva per la dama o gli scacchi, lo scopo del gioco sarà stato comunque quello di mangiarsi le pedine dell’avversario.
Giochi complessi o giochi sciocchi, ma pur sempre giochi……ed è proprio sulla natura e sul significato del gioco che sono state espresse molteplici teorie. Tradizionalmente il gioco veniva interpretato come svago e ricreazione, come riposo dal lavoro o da altre attività più o meno impegnative e l’attività ludica del popolo romano, in tutte le sue varie forme e aspetti, fu molto varia. Il rischio, la sfida e la fortuna furono alcuni tra i più importanti elementi che, sin dall’ antichità, appassionarono e permisero agli uomini, di tutte le fasce sociali, di sperimentare giochi e passatempi paragonabili all’odierno gioco d’azzardo. Che si trattasse di passare il tempo o dimostrare la propria superiorità sull’avversario, il gioco d’azzardo aveva iniziato la sua corsa entrando di gran carriera nella nostra era. Non dobbiamo però dimenticare che ogni tipo di gioco fa parte della vita di ognuno e continuerà a farlo fino a che esisterà l’uomo.
La presenza di molti giocatori motivò l’apertura di diverse tabernae lusoriae (case da gioco) di basso livello. Ne è un esempio quel che rimane di una taberna che si trova a Pompei, nella VI Regio, al n. 28 della 14° insula; costituita da un’ampia stanza aperta sulla strada, era riconoscibile da un insegna che raffigurava un bossolo per i dadi tra due falli. Non lontano da questa taberna, al n. 36, vi era una caupone (osteria) dove si giocava ai dadi, le pareti erano decorate con divertenti scenette (descritte dal Varone) arricchite con scritte a modo di fumetto che riportavano discussioni e scambi di accuse di due giocatori. In sostanza giocavano ai dadi, indistintamente, tutte le categorie sociali e ad ogni età, e in ogni luogo, dai palazzi imperiali alle infime osterie.
Vista la diffusione del gioco era naturale che attorno ad esso si incrementasse un fiorente commercio, esisteva una categoria specializzata di artigiani che si dedicava a quest’industria. Fra i tanti si distinguevaLucilio Vittorino, egli non si limitava a produrre dadi ma anche altri oggetti che servivano per il gioco tra cui le particolari tabulae lusoriae.
Anche se enumerati tra i giochi d’azzardo, ogni tipo di partita che si disputava su una tabula lusoria(scacchiera) era unicamente il frutto di deduzione e concentrazione, non si trattava affatto di giochi affidati alla sorte, naturalmente studiare la prima mossa costituiva sempre un vantaggio, non si poteva però escludere che, nel caso si facessero interessanti puntate sul loro esito, questi giochi si trasformavano in giochi d’azzardo.
Le tabulae lusoriae, veri e propri piani da gioco, erano realizzate in vari materiali: dal più comune legno a quelle in ebano con intarsi di avorio, esistevano anche in semplice marmo o bronzo e addirittura con pietre semipreziose. Non mancavano però le scacchiere disegnate nell’argilla fresca dei bipedali e quelle portatili, scacchiera come quella raffigurata nell’affresco rinvenuto in una osteria di Pompei le cui misure (m.1,20 x m.0,80) dovrebbero essere standard per questo genere di arnese (attualmente al Museo Archeologico Nazionale di Napoli).
Dagli autori antichi. come per esempio da Plinio il Vecchio, abbiamo notizie delle più preziose scacchiere appartenenti a Pompeo, mentre Petronio nel Satyricon descrive quella portatile, riccamente accessoriata, con la quale giocava Trimalcione. Delle altre, anche se non così preziose non se ne è trovata traccia, probabilmente inghiottite dalle guerre, dai saccheggi o da altre catastrofi. Dagli scavi sono tornate alla luce un gran numero di scacchiere incise, le troviamo nei Fori, sui lastricati delle Basiliche o nei mercati dell’Impero. Dal loro numero si deduce che molta gente dovette fermarsi in quei luoghi, presumibilmente, non soltanto fannulloni ma anche coloro che dovevano, anche allora come oggi, fare file mostruose per poter adempiere ai propri impegni. Ne sono l’esempio alcune tabulae lusoriae incise sui gradini della Basilica Iulia al Foro Romano. Naturalmente se ne trovano molte anche nel resto dell’Impero.
Fra i giochi che sfruttavano le tabulae lusoriae vi erano il filetto, le fossette, il gioco delle dodici linee e illatrunculi.
Il gioco del filetto utilizza una scacchiera il cui schema esiste da molti secoli e la partita per la quale questa tabula era stata creata veniva giocata in epoca romana esattamente come la si gioca oggi. Su una lastra del pavimento della Basilica Iulia al Foro Romano vi è incisa una scacchiera identica a quelle che oggi noi usiamo. Sulle tabulae erano tracciati tre quadrati concentrici in cui i lati venivano bisecati da linee perpendicolari che, però, escludevano il quadrato centrale. Per giocare si usavano 18 pedine, 9 bianche e 9 nere, con le quali i due giocatori cercavano di metterne tre in fila. Anche il gioco del filetto aveva le sue regole come le aveva quello delle fossette: la scacchiera, in questo caso, era provvista di un certo numero di fossette disposte in modo diverso: alcune ne presentano soltanto 8, altre addirittura 12, alcune sono invece disposte a cerchio. Esempi di queste tabulae si trovano presso il Mercato e presso il Foro Vecchio di Leptis Magna (oggi Libia), la tabula a forma di cerchio, incisa in una delle grandi lastre pavimentali, è diversa dalle altre: si presenta con due cerchi concentrici, divisi in otto settori regolari, all’estremità superiore vi sono 8 fossette mentre 1 sta al centro dei cerchi. Una scacchiera simile, ma molto rovinata si trova a Roma nella Basilica Iulia nel Foro Romano. Non siamo a conoscenza delle norme che regolavano le partite, ma è facilmente ipotizzabile che la procedura era, più o meno, come quella del filetto.
Del gioco delle dodici linee si conosce praticamente ogni regola perché oggi si gioca ancora in quasi tutto il mondo, in Italia viene chiamato tric-trac o tavola reale, mentre in Inghilterra è stato battezzato come Backgammon. Anticamente, come oggi, si giocava con una speciale scacchiera e trenta pedine, quindici bianche e quindici nere, occorreva inoltre un fritillus (bossolo) e due dadi. Anticamente, per questo gioco, venivano realizzate vari tipi di tabulae lusoriae: una di queste aveva due tipi di caselle numerate da I a XXIV le prime 12 in un senso le altre in senso inverso. Tra queste file ne esisteva una centrale su cui erano tracciati elementi decorativi.
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