Chissà quali librerie italiane ha frequentato ultimamente il giornalista e scrittore Massimiliano Parente, per scrivere l’ articolo Ma che sciccheria i libri sul dolore di Africa e Palestina, apparso sabato sul Giornale. In queste poco notevoli 60 righe o giù di lì, l’autore lamenta la scomparsa dalle librerie italiane dei grandi autori della cultura classica occidentale, il cui posto (legittimo?) sarebbe stato usurpato da una folta schiera di autori stranieri, di origini araba e africana per lo più, dai nomi impronunciabili e che fanno dire al nostro che in realtà questa letteratura “etnica” servirebbe a nutrire palati borghesi e radical chic, in cerca di altrui dolori e tragedie, così da sentirsi confortati nel caldo e nella mollezza benestanti delle proprie abitazioni. Perché a vendere di più oggi sarebbero i romanzi sulle tragedie africane, palestinesi, arabe e dei migranti, che in passato trovavano posto nei grandi reportage giornalistici, mentre oggi “bisogna scriverci dei romanzi”.
Per quanto possa essere condivisibile, ad un minimo livello, la critica che il nostro muove ad un certo filone di marketing editoriale italiano che strizza l’occhio al lettore medio, adescandolo con proposte che solleticano la sua pruderie, in realtà ci sono diverse note stonate in questo pezzo, che sembra scritto in tutta fretta (tanto per cominciare, tutti i titoli citati sono nuove uscite) e in cui il parlare della letteratura sembra solo un pretesto per sparare a zero su altro e difendere l’orgoglio nazionale e i propri confini sicuri.
Leggiamo di più, ci vedremo anche meglio
L’immagine che esce da questo articolo è quella di una letteratura straniera un po’ folkloristica, i cui scrittori portano nomi come Jabbour Douaihy, Alawiya Sobh, Yasmina Khadra o titoli come Timira. Romanzo meticcio, che sono “impronunciabili” e che sono stati tradotti o pubblicati in Italia solo perchè l’esotico tira, va di moda.
Già, i nomi citati. Tutti alla rinfusa come se fossimo all’interno di un enorme calderone in cui mischiare gli stessi ingredienti. Si passa da Timira, letteratura italiana e migrante, a Shani Boianjiu, autrice israeliana, che sta insieme a Sobh e Douaihy, scrittori libanesi, e Khadra, autore algerino francofono che vive in Francia. Nomi infilati uno dopo l’altro come fossero intercambiabili, perché quando si parla di qualcosa che non si conosce, ma che si giudica, lo strumento della generalizzazione è quello più facile e pronto da usare.
Mi piacerebbe sapere se Parente sa chi sono questi autori, se li ha mai letti: se sa che l’ultima volta che Khadra è venuto in Italia, ad esempio, ha riempito un auditorium romano; se sa che Jabbour Douaihy è stato di recente ospite della Scuola Holden di Torino, in cui ha tenuto una lectio magistralis sulla letteratura e il mestiere dello scrittore. Chissà se sa che gli italiani leggono, da decenni ormai, la letteratura araba in traduzione, che conoscono e apprezzano Mahmoud Darwish, Elias Khoury, Abdellah Taia, Hoda Barakat, Ghassan Kanafani, Nagib Mahfouz, Ghada Samman e potrei andare avanti ancora per molto.
Probabilmente no e neanche gli interesserebbe visto quanto scrive: Nel romanzo di Jabbour Douaihy, San Giorgio guardava altrove (Feltrinelli), la protagonista racconta la guerra civile in Libano e il dramma della sua doppia appartenenza religiosa, cristiana e musulmana. Non me ne frega niente, quindi come San Giorgio guardo altrove pure io.
Douaihy deve essere stato tradotto non perchè abbia effettivamente qualcosa da dire, ma perchè ha un nome così complicato che chi lo riesce a decifrare e pronunciare correttamente deve sentirsi molto intelligente. Deve essere senz’altro affetto da quel bovarismo radical chic cui Parente fa riferimento ad inizio articolo. Perchè: L’onomastica credo sia un criterio di selezione editoriale discriminante, i nomi più sono impronunciabili più tirano. […] Con conversazioni tipo: «Cosa stai leggendo?». «Ho appena finito Alawiya Sobh, sto iniziando Jabbour Douaihy» e bisogna mettersi d’accordo sulla pronuncia per capire che stiamo parlando dello stesso autore.
Quanto deve suonare snob parlare di letteratura araba alle orecchie del giornalista, che forse non riesce ad immaginare che ci sia un pubblico che effettivamente la legge non perché fa chic, ma perché la apprezza semplicemente per quello che è: letteratura, punto e basta.
Il sentore folklorista viene rafforzato poi ancora di più dall’immagine messa in bella mostra nell’articolo, e che raffigura una danza africana. La domanda sorge spontanea: che c’entra con l’argomento dell’articolo? Nulla. Ah, ecco. O forse serve solo a suggerire quella strada idea folkloristica che qualcuno ancora ha dell’Africa e del Medio Oriente.
È evidente che per Parente solo la letteratura occidentale può parlare delle miserie della condizione umana. Non quella extra-occidentale che racconta solo di guerre, bambini ammazzati e povere donne islamiche senza diritti. Come se, ad esempio, i libri che raccontano la guerra civile in Libano avessero una portata ristretta, nazionale, o riservata a lettori di un certo tipo e come se il racconto di quella tragedia libanese non potesse essere portatore di un messaggio universale.
No, si tratta di Libano, è il Medio Oriente, la guerra è la loro, a noi che importa? Come possiamo capirli? Come possono loro capire noi e il dramma della nostra esistenza umana? Siamo diversi, incomunicabili, chiusi nei confini dei nostri sistemi sociali e culturali di riferimento. Come può uno scrittore libanese parlare a me, che sono italiana, e cercare di comunicarmi il disagio e il dolore di vivere in un Paese che da 40 anni vive in una condizione di guerra civile semi-permanente?
Questo è un discorso che toglie dignità al dolore altrui, che ridimensiona e disprezza la sofferenza umana, che evidentemente quando è degli altri non-occidentali non può essere universale.
Questo è un discorso che innalza siepi, che diventano alte come muri, tali che è impossibile volgere lo sguardo al di là come cercava di fare Leopardi, malamente citato in chiusura dell’articolo.
Questo è un discorso che mette in guardia i lettori italiani: attenti a voi, la prossima volta che metterete piede in una libreria, perchè la letteratura straniera, extra-occidentale, avanza minacciosa, osando togliere spazio e visibilità alla letteratura occidentale.
Brr, la famosissima e pericolosissima letteratura non occidentale. Che ci fa conoscere un altro pezzettino di questo mondo. Che paura. Non sia mai che ci venga voglia di partire e viaggiare. Non sia mai che impariamo qualcosa di nuovo. Non sia mai che guardiamo oltre la siepe per provare davvero a capire il presente, rileggere il passato e immaginare il futuro.
A voler guardare il famoso bicchiere mezzo pieno, verrebbe da sentirsi contenti di sapere che la letteratura araba, migrante e africana siano diventate visibili nelle nostre librerie, al punto che se n’è accorto anche chi, con tutta evidenza, sa poco o nulla di questa materia (anche se da qui a dire che ci sono SOLO autori migranti, arabi e africani ce ne passa, eh).
Ma io non sono mai stata molto a favore del detto “l’importante è che se ne parli”. Soprattutto quando se ne parla in modo così scorretto, e soprattutto quando lo si fa su un quotidiano a tiratura nazionale come è Il Giornale.
Va bene la critica, ma che almeno sia costruttiva e intelligente altrimenti rimane sterile e autoreferenziale.
Direi quasi un po’ bovarista radical chic, no?