Si può comunque cercare di superare “quel velo di normalità cui le tecnologie di oggi ci abituano – inteso come utilizzo tipico – e spingersi, anche solo per curiosità, verso strumenti che possano portare benefici immediati anche nella vita informatica di tutti i giorni e, soprattutto, nelle professioni più delicate”.
E i giornalisti, quelli che fanno le inchieste e vanno a infastidire i potenti, sanno di quale delicatezza stiamo parlando. Si devono proteggere le fonti, i cui nomi, recapiti e numeri telefonici sono semmai custoditi in un file del computer in redazione, a casa, sul portatile, dunque facilmente intercettabili da parte di chi si sente scrutato. Si devono cancellare le tracce disseminate durante le ricerche in rete, o nella corrispondenza via mail. Si devono proteggere gli archivi personali, impedire che possano essere oggetto di attacchi informatici.
Il paradosso è che la tecnologia – sempre più touch e facile da utilizzare – ci fa dimenticare la prudenza di un tempo, quando il giornalista investigativo conservava le sue carte preziose negli armadietti metallici delle redazioni, muniti di lucchetti e robuste serrature, e faceva le telefonate delicate dalle cabine pubbliche o dal baretto sotto la redazione.
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