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Il giornalista Peppe (un racconto di Paride Leporace)

Creato il 31 luglio 2012 da Wsf

Il giornalista Peppe (un racconto di Paride Leporace)

A nome e su invio di Paride Leporace, postiamo il suo intenso racconto, nella ricorrenza d’anniversario del giornalista Peppe D’Avanzo

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IL GIORNALISTA PEPPE

I piedi giravano sui pedali con cadenza vorticosa. Ormai non vedevo nulla. Le macchie di verde ai lati della strada, gli sfondi di campagna e quelle lontane colline erano punti immobili, come delle cartoline illustrate. E i piedi giravano veloci come quando i polpastrelli battono serrati sulla tastiera del computer.

“Ma di cosa stiamo parlando. Dico, di cosa stiamo parlando?”. A casa di Peppe, giornalista d’inchiesta, il celebre regista cinematografico conosceva bene il numero. Peppe aveva un’altra verità da svelare. Quei venti estremisti di varia condizione anagrafica e diversa provenienza ideologica arrestati dalla procura di Cosenza per associazione sovversiva e attentato contro gli organi costituzionali con l’accusa di aver organizzato e coordinato quel gran macello del G8 di Genova, non avevano convinto per nulla un vecchio cronista come Peppe. “Ma di cosa stiamo parlando? Di qualche reduce di Autonomia e di qualche ragazzetto meridionale che si mettono a coordinare black-block. Ma per favore. Francesco Caruso che mette sotto il suo tallone tutti gli antagonisti planetari. Ma di chi stiamo parlando? Di che stiamo parlando? Parliamo invece dei signori del Ros.  E’ nei loro uffici che nasce questa brillante idea. Il generale, che con tono austroungarico dice al suo vice che tra Napoli e Genova ha operato un’associazione sovversiva, sottolinea che a Cosenza c’era una vecchia inchiesta, poi si ricorda del solito Francesco Cirillo che al telefono dice di tutto e di più, la riunione con quelli di Taranto dove c’erano infiltrati due carabinieri. Cirillo, una testa matta buona per ogni stagione L’idea allora è bella pronta. La Rete del Sud ribelle che assolda gli estremisti di tutto il mondo. I carabinieri intercettano, osservano, spiano, pedinano. Mettono insieme come vogliono frasi, dialoghi, eventi, luoghi. Un gioco molto semplice. Lavorare su mano viva a mano libera. A quel punto serviva soltanto un pm che prendesse sul serio una cabala induttiva fondata su teoremi e prove del piffero

Ma ora non correvo contro qualcuno. Un’insidia inattesa e inconsueta per il mio corpo enorme da ex rugbista. Ma ora non correvo contro qualcuno. Non era una meta. I piedi sembravano aspettare che arrivassero gli ultimi chilometri di quella corsa in bicicletta.

“Ma di cosa stiamo parlando?” e Paolo regista di successo era idealmente in prima fila nel salone di Peppe per capire come il suo amico giornalista si apprestasse a smontare le verità preconcette di quella clamorosa inchiesta giudiziaria che aveva terremotato di nuovo il movimento No global tricolore. Peppe non arretrava mai. Non si sarebbe consegnato alla velina data. Una storia complessa questa di casseur di periferia e rivoluzionari dai capelli grigi. Persino Mario Cervi e l’ambasciatore Romano si erano mostrati perplessi su quell’armamentario di reati d’opinione. Figurarsi Peppe. “Ma se il gip che firma l’ordinanza di custodia scrive che il reato di propaganda sovversiva è di difficile concreta applicazione. Roba da Ovra e da polizia di quel periodo. Le mail, le riunioni, e un pugno d’idealisti diventano un’associazione sovversiva”. Paolo ascoltandolo pensava che Peppe in fondo fosse un timido e non un presuntuoso. Un giornalista che preservava la curiosità, che poi, in quel mestiere, è la leva del mondo. Paolo pensava che Peppe fosse molto intelligente ma che fosse dotato di carisma, un carisma che avrebbe poi trasferito nell’autorevolezza delle parole. Parole incolonnate nell’articolo, che avrebbe svelato la storia più vicino possibile ad una verità plausibile su quelle venti persone indagate per i fatti di Genova e Napoli. “Io non so a chi siano utili questi arresti e il casino che ne deriva. Io non so se qualcuno tenta di mettere nuova benzina sul fuoco. Quello che io so, e che scriverò, che alti ufficiali dei carabinieri hanno raccolto intercettazioni e rapporti molto disparati tra loro: una rivendicazione giunta a Cosenza, una riunione dei Cobas, le telefonate di quelli che erano a Genova o a Napoli. Poi si sono messi a riunire il tutto. Confezionano un bel dossier di 980 pagine, ben 47 richiami di note, una bella copertina nera che per dossier riservato non guasta mai e si mettono in giro per le procure circa un anno e mezzo fa. Prima bussata a Genova, dove le inchieste del G8 sono già troppe. La morte di Giuliani, le devastazioni, la macelleria della Diaz. Figurati se prendevano per buone le prove di Cirillo con in mano una frasca. Risposta ai Ros: “Questo lavoro è inutilizzabile”. Gli alti ufficiali riferiscono al generale, e senza scomporsi cercano udienza dai magistrati di Torino. Non capisco in che appiglio di competenza territoriale sperassero. Ma anche quei magistrati letto il tomone nero rispondono: “Questa roba non serve a niente”. A questo punto caro Paolo, è tappa obbligata per gli ufficiali a molte stelle farsi un viaggio anche nella nostra Napoli e non solo per mangiarsi una buona pizza. Ma anche da quelle parti ci sono toghe non molto propense a prendere il librone. A Napoli hanno persino arrestato gli agenti della polizia per gli incidenti di marzo. A quel punto bussano alla porta giusta. Cosenza città che può incrociare gli anni Settanta con le vicende di oggi. I vertici della polizia locale hanno espresso perplessità sul reato associativo. Poi, chissà perché, la Digos licenzia un’informativa con l’accusa di attentato agli organi costituzionali per i loro controllati che hanno disturbato i vertici internazionali. Uno strano paese l’Italia, caro Paolo, magari un giorno ci giri un film dei tuoi su queste belle vicende”.

E poi la strada si aprì come una lunga prateria, una distesa infinita, un bianco abisso intravedevo sotto la palpebra. Mi sembrava di essere risucchiato oltre l’indefinito.

“Peppe ma secondo te Genova nei giorni del G8 che cosa è stato, che è accaduto?” plana cauta la domanda Paolo toccandosi la basetta. E Peppe lisciandosi i baffoni questa volta non doveva proferire il suo classico intercalare con: “Ma di cosa stiamo parlando?” perché quello che era accaduto a Genova durante il G8 per lui era stato molto chiaro. “Vedi Paolo, quando un costituzionalista come Valerio Onida ci ricorda che uno Stato democratico che vessa e maltratta le persone private della libertà non è uno Stato democratico, la questione è molto seria e riguarda tutti noi. Quando le forze dell’ordine commettono reati si distrugge la credibilità delle istituzioni. A Genova oltre la morte di Carlo Giuliani, è successo altro. I black block indisturbati, hanno distrutto la città in-di-stur-ba-ti, e questo è un fatto. Ma lasciamo stare. I gruppi scelti della Finanza per tutti il giorno picchiano donne, ragazzi, indifesi, vecchi con le braccia alzate. E poi? La Diaz. Un giornalista inglese, si chiama Mark, vede i poliziotti davanti al cancello della scuola ed estrae il tesserino con l’accredito. I celerini, senza pensarci un attimo, tradizionalmente davanti ad un giornalista si fermano, invece lo iniziano a picchiare selvaggiamente. In inglese gli gridano t’ammazziamo. Tutti i poliziotti ch’entrano nella Diaz gli regalano un calcio. Rimane per venti minuti in un angolo di strada con un’emorragia, interna, un polmone perforato, il polso spezzato, otto fratture alle costole, dieci denti di meno in bocca. Quando si è svegliato in ospedale lo hanno arrestato per resistenza aggravata a pubblico ufficiale, concorso di detenzione in arma da guerra e associazione a delinquere. Paolo, la Diaz è stata una vicenda orrenda. I ragazzi che dormono ed alzano le mani impauriti. Ad una ragazza con un calcio le hanno aperto la testa come un melone. Tagliavano ciocche di capelli come trofei, quasi fossero dei serial killer come quel matto di Potenza che ha ucciso quella ragazzina che hanno trovato nella chiesa. Degli  83 arrestati alla Diaz ben 63 sono stati ricoverati, tre in prognosi riservata. E il giorno dopo il portavoce dal capo della polizia in conferenza stampa cosa ci viene a raccontare? Che nella Diaz c’erano quelli che avevano assaltato la polizia, che anche nella scuola li avevano attaccati, uno con un coltello, e poi ci mostrano le molotov che avevano sequestrato. Ho dovuto reprimere tutto e restare freddo per non urlargli ma di cosa stiamo parlando? Caro Paolo, come ben sai, stiamo parlando di accuse false e di ragioni inventate di sana pianta. Quei ragazzi non avevano assaltato nessuno. Non erano già feriti come è stato detto. E nella scuola non c’erano molotov perché quelle bottiglie incendiarie sono state ritrovate da tutt’altra parte e messe nella scuola per fabbricare false prove a discolpa della polizia. Perché caro Paolo in Italia si fa avanti un pericoloso “diritto di Polizia”. L’Italia ha bisogno di sapere se il giuramento alla Costituzione delle forze dell’ordine non sia un’impudente finzione. E ricorda Paolo, quando uno Stato si presenta nelle vesti di sbirro e carnefice, e noi del Sud le sappiamo bene queste cose, non ci vuole nulla che uno Stato possa diventare criminale. Se poi vuoi sapere, perché un bravo poliziotto come Gianni De Gennaro si sia messo alla testa di questa macelleria io una risposta non l’ho ancora trovata”. E Paolo pensoso rivolse lo sguardo verso la vetrata più lontana.

A poco a poco, pedalando, ritorno ad avvertire i signal del mio cuore, quel muscolo che contiene quel mio mondo interiore che non ho mai narrato e mi tornava in mente un passo di un racconto di Ermanno Rea: “Individualistico il Sud: ma guai a distinguersi e uscire dal gregge e ad apparire in una schietta luce di valore sul crinale frastagliato della vita”. Già, la vita.

E Paolo il regista nel suo salotto gli pose la domanda con insolita dolcezza nel solito salotto di casa sua: “Peppe ma tu sei un giornalista che non si fida mai del Potere?”. Peppe sorrise, prese fiato dopo aver aspirato una delle sue amate Marlboro rigorosamente rosse e rispose: “Vedi Paolo, un’inchiesta giornalistica è la paziente fatica di portare alla luce i fatti, di mostrarli nella loro forza incoercibile e nella loro durezza. Il buon giornalismo sa che i fatti non sono mai al sicuro nelle mani del Potere e se ne fa custode nell’interesse dell’opinione pubblica. L’opinione pubblica che il Potere volentieri metterebbe da parte. Paolo, è sempre stato in questo modo. Ne abbiamo parlato molto quando mi hai chiesto una mano per”Il divo” e ti portai dallo zio Giulio. Gladio e la P2 tutta una cosca. Si dovevano occupare dei russi e hanno sempre spiato le opposizioni. Fatti da rendere noti per capire quello che era accaduto nel nostro Paese anormale. Tangentopoli e le sue attese messianiche. Bel periodo, ma lavoravo con la consapevolezza che il dopo sarebbe stato peggio di prima. E comunque a Bologna e Firenze le procure furono molto caute. Sai, quando qualcuno mi associa al Potere giudiziario, mostra di non aver compreso molto di me. Non sono mai stato un giornalista al loro servizio. Mi fece riflettere molto Masino Buscetta quando disse a me e Scalfari, che colpo quell’intervista, la solita sarabanda di giudici contro giudici. Sai, c’è sempre qualcuno che si sente più Stato di altri. Ho cercato sempre di porre il monito sui giudici che devono far ordine in casa propria. Falcone era più Stato degli altri. Avevamo raggiunto un buon rapporto. I palermitani rosicavano per questa fiducia, forse anche Attilio, amichevolmente gli rodeva che un napoletano come me avesse capito e conquistato la Palermo di Falcone”. “Ma sconti non ne hai mai fatti? Alla tua parte politica, alle tue fonti privilegiate?” disse Paolo curioso come non mai. “Una notizia non è mai neutra. Serve sempre a qualcuno. Sei bravo se la gestisci con autorevolezza non perdendo le fonti. Quando con Carlo abbiamo svelato l’intrigo internazionale su Telekom in molti non si capacitavano sul fatto che Repubblica potesse aver disarticolato e rivelato uno dei peggiori guazzabugli del centrosinistra italiano. Dini aveva quasi l’ittero. Poi, con il tempo abbiamo fatto capire che su malefatte di sinistra, la destra a suo uso e consumo cercava di prender consenso con una strano personaggio come Igor Marini. E la macchina del fango è entrata nell’attualità politica ed è ancora là, grazie a questi camerieri prezzolati sempre al servizio del padrone. Ma come ben sai, certe questioni vanno oltre i nostri confini. Ancora godo quando penso all’ambasciatore russo che chiede al giornale la sospensione sull’inchiesta a puntate che sputtanava presente e passato di Putin. Certe cose non si dimenticano. La mia carriera è iniziata alla “Voce della Campania” controinformazione di sinistra. L’ideologia c’era, ma la documentazione dei fatti è sempre stata rigorosa. I capi mi chiedevano se avessi studiato Giurisprudenza considerato che andavo alla giudiziaria. Quando rispondevo Filosofia, restavano perplessi e mormoravano va bene proviamo. Ma poi sui pezzi che scrivevi non ti permettevano sviste né sui fatti e né sulla sintassi. Non ho mai dimenticato la gavetta da dove provenivo, anche quando ho smontato le tesi patriottiche dei giornali americani sull’Undici settembre. Vedi Paolo, in quell’occasione si sono messi nelle mani del Potere e hanno tradito i lettori. Io non sono buono per quei servizi. Io sento un folletto che ride dentro di me quando dimostro che un capo del Sismi come Pollari costruisce un dossier falso per giustificare la guerra in Iraq. Quella è gente che si salva con i segreti di Stato e che hanno amici che fanno circolare documenti a proprio favore nelle redazioni dei giornali. No Paolo, non mi piace il Potere con le sue lusinghe e le prebende. Mi piace fargli le scarpe. Per questo vorrei capire meglio quello che accadde al G8 a Genova. Ma mi mancano ancora degli elementi. Ho dato voce in rete per avere testimonianze e spunti. Forse ho sbagliato. Chissà che si aspettano. Magari che faccia un romanzo alla Luther Blisseth”. “Dai fai trapelare che si chiama G e che poi sarà un film”. “Ma fai il serio. La macchina del fango è tutto sommato la Società dello spettacolo. Ma di cosa stiamo parlando?” E si misero a ridere di gusto.

Brancolo sulla strada ubriaco di fatica. Nell’aria non sento più voci, solo un sibilo di vento. Trovo forza per urlare: “Attilio sto male”.

Paolo e Roberto passeggiano in un parco. Bambini giocano a pallone. Paolo sospira a mezza voce: “Mi sembra un brutto incubo”. Roberto scuote la testa e afferra i pensieri: “A me sembra che non sia successo davvero. Non mi capacito che non posso vederlo più o sentire il suo vocione al telefono. E’ banale dirlo, ma lascia un vuoto immenso. Lui, non sbatteva dati giudiziari in pagina, ma collegava, spiegava. Non si è mai accanito contro le persone. Cercava e spiegava verità”. Paolo annuisce, non vuole aggiungere altro ha quello che ha detto alla commemorazione funebre. Roberto invece ha voglia di parlare: “Cercava di essere invisibile. Non voleva mostrare il volto per lavorare meglio. Io invece, lo sai, cerco di ottenere visibilità per parlare a più persone possibili. Questo mi ha sempre fatto temere che questo ci allontanasse. Ma mi sbagliavo. Peppe era solo diffidente verso quello che non conosceva. E anche con me, voleva solo capire meglio per non sbagliare. Poi abbiamo cominciato a frequentarci. Andavo a casa sua, e tu sai com’era, parlare con lui era uno sballo. Quando non lo convincevi ti diceva quel e dai Robbè. Mi aveva molto sostenuto sulla questione della ‘ndrangheta in televisione. Non mollare mi diceva.

A pranzo mi faceva trovare la mozzarella. Lui, invece per antipasto mangiava le fragole, che tipo. E la passione per il rugby. Quando l’Italia in primavera aveva battuto la Francia al Flaminio non si poteva tenere. Ci faceva metafore sul rugby e sulle sue regole.   Poi, alla fine del pranzo, sigaro e si parlava di Napoli. Perché lo sai anche tu, se vieni da Napoli sarai sempre un regista napoletano. Io uno scrittore napoletano. Lui un giornalista napoletano. Sai mi è stato molto vicino quando le polemiche sulla vita blindata mi strangolavano. Andai a casa sua. Mi accolse con un bicchiere di vino in terrazza e la cagnolina Noce ai piedi. Mi fece sfogare accompagnando le mie parole con un “mmm” cadenzato che mi rassicurava. Hascritto uno dei suoi grandi articoli a mia difesa. E come lo dimentichi. Il suo ultimo messaggio era di affettuoso rimprovero perché non l’avevo salutato. Da Repubblica mi hanno chiesto un articolo sulla nostra amicizia per il libro dedicato alle sue inchieste. Lo sai come voglio chiuderlo? Scriverò il kaddish per lui lo reciterò il primo giorno della nuova Italia, perché quel giorno verrà, e’ ormai vicino. Anche grazie a Peppe”. Paolo lo guarda intenerito e si ricorda ancora una volta di quel vocione che bofonchia: “Ma di che stiamo parlando?”.

Su una bacheca di Facebook il 2 agosto 2011 alle 5,38 qualcuno scrive: Buona domenica a tutti. Un pensiero sentito  a Peppe D’Avanzo che tanto ha dato con passione antica.

Seguono 40 mi piace e sei commenti. L’ultimo è scritto da Giancarlo Tedeschi: “L’ho conosciuto, febbraio 1994, inviato di Repubblica ad Avigliano, campo neutro di Paganese-Brindisi, per capire e raccontare cosa e chi si nascondeva dietro quei “tifosi” della Paganese che erano stati capaci di far squalificare il campo (se ben ricordo) un anno con obbligo (disatteso) di giocare in campo neutro a porte chiuse. L’ho conosciuto, ma non riconosciuto, nonostante fosse già noto: mi chiese notizie su Avigliano, mi passò le formazioni delle squadre, poi andò in tribuna dove un gruppo di tifosi di Pagani aveva preso posto, mentre io andai nel gabbiotto dall’altra parte, e continuai a domandarmi chi fosse quella persona che aveva un viso noto ma che non riuscivo ad associare, in quel momento, a nessuno. Lo scoprii il giorno dopo, leggendo Repubblica. E rimasi di sasso, proprio come sabato nell’apprendere la notizia di una morte troppo precoce e profondamente ingiusta.

PARIDE LEPORACE


Filed under: scritture, visioni letterarie Tagged: letteratura, Paride Leporace

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