Magazine Cultura
Egli non si rendeva conto che per tutti giunge il momento in cui si sta al mondo perché c'è posto.
Pervaso da un'intensissima vena lirica, romanzo di reale spirito aristocratico, Il giorno del giudizio (1979) venne pubblicato quattro anni dopo la morte del suo autore, Salvatore Satta (1902-1975), che perciò non riuscì ad apprezzarne lo strepitoso successo che arrise a uno scrittore sardo dopo l'ormai lontanissimo exploit della sua concittadina Grazia Deledda. Per quanto incredibile possa sembrare, l'opera è stata tradotta in una ventina di lingue, sfidando la provincia remota in cui il suo autore ha collocato questa rievocazione assorta e struggente.
Gli appassionati di storia o di enigmistica seguiranno forse le fila di un percorso pudico e autobiografico impregnato di malinconia cimiteriale. Nel mio bovarismo, io qui vorrei sfuggire all'araldica di un mondo che, peraltro, non appartiene al mio immaginario. Non so decidere quanto di vero ci sia nell'appellativo di Spoon River italiano, per questo viaggio in un camposanto di bestemmia del vivere e di ogni fiducia nell'altro. Mi sembra, anzi, che lo spirito sia profondamente diverso, più raccolto e corale del magnifico rosario di epigrafi che ha fatto di Edgar Lee Masters il paladino dell'anonima provincia americana. Poco alla volta, ciascuno col suo tempo e col suo spazio, nel libro e nel mondo, le voci di un universo lontanissimo si vanno rinforzando e insieme intrecciando l'una alle altre in un sovrano disincanto armonico. Il giorno del giudizio, fatta la tara del tono apocalittico che inevitabilmente accompagna il titolo, è un'opera straordinaria di commossa resurrezione laica, di amore per il cammino percorso:
C'erano tutti, allora, nella stanza ravvivata dal caminetto, ed eravamo felici poiché non ci conoscevamo. Per conoscersi bisogna svolgere la propria vita fino in fondo, fino al momento in cui si cala nella fossa. E anche allora bisogna che ci sia uno che ti raccolga, ti resusciti, ti racconti a te stesso e agli altri come in un giudizio finale. È quello che ho fatto io in questi anni, che vorrei non aver fatto e che continuerò a fare perché ormai non si tratta dell'altrui destino ma del mio.
In antitesi - o piuttosto in risonanza - con l'irrisolto (e quasi protonovecentesco) Ludovico, il giovane figlio cagionevole e promettente di don Sebastiano Sanna, l'io narrante di questo straordinario romanzo della periferia fa risuonare i suoi passi in un cammino dove inizio e fine si abbracciano e si completano in un virile addio. Il giorno del giudizio è un romanzo dove un mondo esplode e s'inabissa, dove la scrittura non sa più se sorprendere con le sue impennate poetiche o per la penna sorvegliatissima e acuta fino alla mordacità. Satta ricostruisce con passione e insieme con un senso di esibito mistero - pieno di chissà come e chissà perché - un universo esistenziale che l'ha visto insieme allontanarsi e cercare le radici.
Sono frequenti i passi nei quali l'autore rinuncia a trovare una verità nella storia, la voce preferisce piuttosto farsi forza del suo patrimonio di esperienza e visione del mondo per affrontare questi incontri con i fantasmi del passato. Certo, talvolta questa tessitura sembra lisa, consunta da un'articolazione troppo mobile, e insomma il lettore un po' fatica a tenere insieme l'orizzonte narrativo di Satta: ma la sua forza sta proprio nella capacità di ricucire esplicitamente quel che sfugge, come sullo sfondo, emergendo a richiamare l'attenzione su passaggi più insospettati del romanzo. Direi anzi che l'elemento di maggior forza de Il giorno del giudizio è proprio quella di educare il lettore al suo codice, al suo registro, alla sua inattesa, aliena grandezza. E questa è la forza della grande, della migliore letteratura.
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