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Alle prese col disagio esistenziale, quello di Silvia Argiolas è uno sguardo allucinato sui gesti capaci di cambiare il destino altrui, nel bene e nel male. Che esplora il terrore di chi vive nell’angoscia in attesa del Giudizio finale, in uno scenario dove la natura si rivela matrigna e creature - deformi e ibride - si fondono con lo spazio divenendone parte integrante. Ossessioni e paure coincidono con l’atmosfera morbosa, tra peccato e redenzione, alludendo ad una ambiguità sessuale che consente un’introspezione sempre più profonda. La pittura liquida si alterna a stratificazioni cromatiche e punti di luce che appaiono all’improvviso a catalizzare mondi interiori e sondare i misteri del proprio essere, in un contesto neo espressionista che attinge alla pittura nord europea.Autobiografica e intimista, l’installazione pittorica Before the Judgement I Thought I was fucked, tra mutazione e rinascita, è una visione distorta, ma al contempo carica d’amore, dell’estrema sensibilità dell’artista che indaga i meandri della psiche. Dagli autoritratti disposti in successione, specchio dei contrastanti stati d’animo, all’universo acido e visionario, riflessione sul male fatto e subito e sulle inevitabili conseguenze ma che riserva un’inaspettata predisposizione a un destino propizio. Trae in inganno l’immaginario apparentemente favolistico di Nicola Caredda che, a ben guardare, si rivela per quello che realmente rappresenta, ossia un insieme di grotteschi teatrini con sfumature horror dove gravitano oggetti, animali e figure bizzarre immersi in una vegetazione rigogliosa e immaginifica. Tra sacro e profano, la maniacale resa dei particolari, in uno stile minuzioso e raffinato, mostra scenari inattesi che si aprono tra la selva e collocano l’opera all’interno di una poetica simbolista da decodificare. Tra cultura alta per i richiami alla pittura classica e l’universo underground. Un personalissimo linguaggio metaforico fatto di bestiari e miniature indecifrabili che affiorano in attesa d’essere interpretati, continuamente attraversato da simboli di morte per un risultato straniante e al contempo accattivante di una pittura pop surreale che tenta di esorcizzare paura e angoscia. In un contesto dove ogni giorno è il Giorno del Giudizio, poichè per l’artista il giudizio più pesante, senza ombra di dubbio, è quello che da martiri infliggiamo a noi stessi, quasi fosse una penitenza che ci avvicina a una fantastica salvezza, in una permanente grazia, come un sogno da bambino. Si declina in quattro capitoli, l’interpretazione pittorica di Paolo Pibi che racconta il giorno dopo del Giudizio. Alba, pomeriggio e tramonto rivelano abbandono e decadenza attraverso elementi architettonici fatiscenti come le vite dei protagonisti del romanzo. Il giorno prima della catastrofe la vita il giorno dopo solo macerie. Ai paesaggi metafisici si sostituiscono le tenebre della notte dalle quali affiorano fluttuando personaggi che sono la summa delle anime che il protagonista incontra. L’insieme delle opere trova il suo punto di forza nella luce che attrae, si concentra e guida lo spettatore ad andare oltre l’apparenza delle figure diafane. Attraverso una pittura enigmatica la cui tendenza si colloca in ambito neo folk per l’atmosfera bucolico-surreale dai toni pacati quanto magici che si coniuga alla tradizione popolare e non tradisce l’influenza dei paesaggi di tradizione leonardesca. Il suo è anche un viaggio autobiografico e il paesaggio è un paradigma del mistero che cattura ciò che è invisibile, al di là della realtà tangibile. Assecondando una natura enigmatica e vertiginosa dove l’immobilità solenne è ricerca della trascendenza e gli spazi metafisici luoghi dell’anima. Ognuno di noi, anche se si limita a guardare in se stesso, si vede nella fissità di un ritratto e non nella successione dell’esistenza. La successione è una trasformazione continua, ed impossibile cogliere e fermare gli attimi di questa trasformazione. Sotto questo profilo, si può dubitare sul nostro stesso esistere, o la nostra realtà è solo nella morte. Prende in prestito la citazione di Satta, Daniele Serra, per strutturare singoli attimi bloccati e disposti in successione a sintetizzare l’inesorabile decomposizione dell’esistenza. Cromatismi terrosi, cupi e grumosi, impiegati con la tecnica del non finito, restituiscono una visione dell’umanità come parte integrante della natura e come tale destinata a consumarsi. Decay è un processo di putrefazione ma è anche uno sguardo disincantato su una realtà decadente al limite della catastrofe. Mediante un immaginario macabro fatto di deformazioni anatomiche - di baconiana memoria - a tratti demoniache, tipico della grafica punk, ambito dal quale proviene l’artista e dove eccelle da professionista.
Roberta Vanali
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