Stralcio di diario, ancora un qualche giorno di Frimaio
Non è di una qualità ordinaria la luce del sole che attraversa il ghiaccio: i cieli opprimenti delle pianure coi campi grassi, l’aspro dei monti e il cimitero di calcare vicino l’acquedotto romano, nudo e intaccato dall’erba con gli uccelli assembrati in cantoria sui pilastri del cancello. Guido con un mal di gola piacevole a suo modo, un pomo gelido ma rimediabile all’altezza delle tonsille.
La Toscana intera si congeda dalla tempesta di neve del giorno prima, io supero le Terme coi loro diademi di resina e i pini fragili, passo l’Arno e mi fermo in una piccola città. Avevo l’indirizzo di un accampamento di guerrieri, o per meglio dire figuranti in maschera che combattono come nel medioevo ma senza uccidersi.
Rinaldo e la sua spada Fusberta.
Fonte: sicilianticasortino.it
Il campo è disadorno, a parte alcune bandiere mute per il vento troppo calmo e qualche bambino al cancello. Le squadre di Bianchi e di Rossi si fronteggiano nel giardino di una scuola. Alcuni uomini tengono testa ciascuno a uno o più avversari ma all’inizio non si percepisce la struttura del gioco e si vedono soltanto fanti armati di spade e mazze. A un segnale le squadre si avvicinano, e a me colpisce un Bruto, così si chiamano i guerrieri dotati di armi pesanti, che sembra il capo della squadra Bianca. Ha gli spallacci avvolti in un panno damascato e si muove con una traiettoria semicircolare, a distanza dai Fantaccini Rossi schierati in gruppi di due al limitare del campo. Il volto è coperto dall’elmo, i compagni, sento gridare, lo chiamano “Orso”.
L’Orso Bianco ora è al centro del campo e stringe a due mani l’accetta. Un Fante Rosso, gladiatore, lo attacca con un fendente alla piega del collo. L’Orso scarta all’indietro e carica, il Fante cerca di difendersi recuperando il colpo ma arriva troppo tardi, l’accetta cade sull’elmo e lo abbatte. Quando il guerriero è in ginocchio i Fantaccini Rossi, che si erano sempre tenuti ai margini del campo, caricano, credo con l’intenzione di rovesciare l’Orso. Ogni cosa è netta, l’erba del giardino è diventata una poltiglia di succhi e di creta e i bambini sono aggrappati ai cancelli, senza più parole. Dalla formazione bianca si stacca un combattente che intercetta la traiettoria dei Fantaccini. Sopra il gambeson porta protezioni leggere e un elmo a scacchi coi colori italiani. Poiché si protegge poco è veloce e riesce a piazzarsi davanti all’Orso. Grida, espone lo scudo e si sente il rumore dell’impatto, come di legno e di metallo. In quel momento l’arbitro suona il fischio della pausa e il combattimento si interrompe. Ranieri, che ha patito l’impatto coi Fantaccini, abbassa lo scudo e mi viene incontro un po’ curvo ma col passo di sempre, ampio e dinoccolato – come Jude, penso spaventata. Mi arrampico su un muretto, siamo seduti su un muretto di travertino con il fango alle caviglie, sento l’odore di sudore maschile, mentre parliamo lui non sa dove mettere le mani e le batte sulle cosce – ha mani grandi e peste, ma calde – e poi mi carezza i capelli. E io mi appoggio alla sua spalla e comincio a raccontare molte cose perché provo l’allegria di quando il pensiero non fatica a far nascere altro pensiero e tutto appare semplice e possibile. E Ranieri tiene lo scudo appoggiato al polpaccio come fosse un ombrello e a un tratto mi cinge la vita. Ed è così divertito delle mie disavventure che ci siamo sentiti tutti più allegri e quando si è trattato di salutarci ha voluto accompagnarmi alla macchina. Gli cammino accanto sul marciapiede, a passi frequenti, e anche così è più alto di me. Mi stringe un’ultima volta poi rientra al campo, con il suo corpo conosciuto e grande, l’armatura che sferraglia.