In viaggio con i familiari delle vittime delle mafie.
Nella miatesta ho raccolto delle testimonianze che ancora fatico a rielaborare. Nonriesco proprio a collocarle nella mia mappa mentale, così poco incline adaccogliere amare realtà. Insomma poco disposta a comprendere come vanno certecose. Ciò che rende tutto più ingannevole e ipocrita, comunque, è che nessuno dinoi, nel profondo, ha difficoltà a definirne le estremità: siamo tutti controla violenza e contro la mafia. Siamo tutti prevedibilmente dalla parte giusta. Ma se si comincianoa valutare tutte le sfumature di ciò che consideriamo l’esistente, quelle tonalitàsbiadite che pochi conoscono nel dettaglio, allora il capitombolo èinevitabile. E così ognuno di noi si ritrova perso nel dubbio. Perché non si riescepiù a stabilire dove si trovano i confini tra quello che è accettabile (esagero,la violenza non lo è mai) e quello che non lo è in nessun caso. Dov'è il senso, dove ilsignificato? Si diventa da un giorno all’altro personediverse. Si viene trasformati.Più diqualsiasi altra cosa, questo è intollerabile: che un bambino di 11anni, per errore (o per orrore, fa lostesso), possa essere ucciso su un campetto di calcio. Questa è la verità dellastoria di Domenico Gabriele, detto Dodò, vittima innocente di un regolamento diconti fra cosche del crotonese. Questa è una delle tante storie che ho sentito,vivendo fianco a fianco ai familiari delle vittime ricordate a Genova il 17marzo, in occasione della 17esima Giornata della Memoria e dell'Impegnopromossa da Libera.È un lavorodelicatissimo ascoltare, rievocare, immaginare di rivivere, con improbabileempatia, un atroce destino. Ma un particolare mi ha stupito: tutte queste personeinsieme ai loro bagagli si portano dietro tanta sofferenza e tanto dolore, eppure,in qualche modo sconosciuto ai più in superficie, hanno ritrovato la voglia divivere e di combattere; hanno riattivato risorse che sembravano perse persempre. E se c’è stato un percorso di riabilitazione e d’inserimento socialequesto non è certo da mettere in conto al sostegno dell’assistenza pubblica,bensì alla forza dirompente di una sete di verità e di giustizia che accumuna iloro drammatici trascorsi. Giovanni e Francesca, i genitori di Dodò, ad esempio,attendono ancora l’esito del processo. Altri ancora, come i familiari di FrancescoTramonte e Pasquale Cristiano, i netturbini di Lamezia Terme che 21 anni fafurono atrocemente assassinati, aspettano tuttora che dalle autorità preposte venganofinalmente identificati il mandante e l’esecutore. Io c’ero aGenova. Sì, sotto quel plumbeo cielo che sovrastava uncorteo di oltre centomila persone che muoveva da piazza Vittoria per piazza Caricamento- nel Porto Antico - ero presente, e osservavo i volti di chi, insieme ad unricordo straziante, portava a spasso la foto della propria vittima. Che Dio liabbia in gloria, magari portando il loro nome su una maglietta o su unostriscione tenuto da un capo all’altro dagli angeli di grazia e di giustizia...Ederano visi conosciuti, perché umani, riconducibili alla nostra specie, che èben diversa da quella assimilabile ai tratti bestiali dei carnefici. Epoi abbiamo camminato e camminato ancora. Lungo un percorso di memoria che ticonduceva ad impegnarti a ricordare, a riprendere la verità in mano e a gridarlaper squarciare le nubi grigie che dall’alto in basso scrutavano il capoluogoligure. Tutti insieme, vittime e sopravvissuti, perché chi rimane ha la mortenel cuore; chi resta a valle non può sfuggire al pesante compito di cingersiattorno al ricordo di ciò che è stato, perché non avvenga più. Edè tanto, tantissimo, il carico di sentimenti che ti rimane dentro, traboccaquasi, come volesse muovere i passi su quella via fatta di storie e ditestimonianze. I familiari recitano il nome dei loro cari dietro a un microfonoche li accompagna nella processione dei vivi, o meglio dei viventi di ricordi. Mavoglio parlare anche di quello che è avvenuto il giorno prima dellamanifestazione; di quando, mentre si era in tanti assiepati nel meravigliosoteatro Carlo Felice, ho sentito parole che tracciavano solchi nell’anima,profondi quanto basta per lasciarvi scorrere lacrime. Una dopo l’altra letestimonianze si avvicendavano copiose.“Cosa significa che Domenico si trovava al momento sbagliato nel postosbagliato?”, ha esordito Giovanni Gabriele, “Domenico si trovava nel postogiusto al momento giusto: in un campo di calcetto a giocare con i suoi amici.Dove doveva trovarsi, se non lì? E dove deve trovarsi, se non in carcere, chigli ha sparato? Voglio solo le chiavi. Solo le chiavi di chi ha ucciso lui, miamoglie e me”. Provate a commentare queste parole. Dico a voi, sì voi tutticolleghi cronisti, ammettetelo pure che vi sareste trovati davanti allo smaccodella parola... Davanti a tutto questo si possono buttare giù solo pagine pienezeppe di silenzio. Odi fragili sillabe, come quelle rotte dal singhiozzo sussurrato di StefaniaTramonte, figlia di Francesco: “Mio padre e il suo collega non erano coraggiositutori dell’ordine, magistrati o impavidi cittadini – ha pronunciato a onor delvero - ma umili e onesti lavoratori che si guadagnavano un tozzo di pane alleprime luci dell’alba”. Francesco Cristiano, fratello di Pasquale, ha lanciato inveceuna severa invettiva: “I rappresentanti dello Stato non fanno che rilasciaredichiarazioni, inutili: ogni anno ci promettono che riaprono il caso, ma laverità è che se non ci sarà un pentito non avremo mai giustizia...”. Abbandonatianche dalle stesse istituzioni che hanno ritenuto giusto chiudere le indagini. C’è tanta, tanta rabbia dentro. Epoi dal palco viene fatto anche il nome di Placido Rizzotto e degli altriquarantadue sindacalisti uccisi dalla mafia. E quello di Francesco Marcone, ildirettore dell’Ufficio del Registro di Foggia ucciso da una mano rimasta ignota, ricordato dal figlio Paolo conqueste chiare parole: “Mio padre non è da considerare un eroe, ma semplicementeun uomo giusto”.Ec’è spazio anche per la tenera confessione di Pasqualina Ruffo, figlia diNicola, il ferroviere ucciso nel 1974 durante una rapina a Bari: “Io sonosempre allegra, positiva, gioiosa, nella mia vita quotidiana. Ma ho un postonella mia macchina, dove piango quando sono sola”. Il giornalista GiovanniTizian,figlio di Giuseppe, funzionario di banca ammazzato il 22 ottobre 1989, non puònascondere invece la sua rabbia quando pensa che la mafia gli ha strappato viaanche il tempo che gli spettava di diritto, quello dell’amore e degli affetti:“Il dolore più grande sono i ricordi, perché ne ho pochissimi, avevo sette anniquando è morto mio padre... lui purtroppo rappresenta adesso una Calabriadimenticata”.Dal palco allestito sullo sfondosuggestivo del Porto Antico, chiude la manifestazione l’intervento di don LuigiCiotti: “La vera forza della mafia non sta dentro la mafia, ma fuori di essa –denuncia - in quella zona grigia costituita da segmenti della politica, delleprofessioni e dell'imprenditoria”. Parole importanti e attualissime, tanto èpalese il riferimento alla volontà di alcune istituzioni di cancellare ilconcorso esterno in associazione mafiosa, “ma questo reato esiste – aggiunge ilpresidente di Libera - ed è stato utile alla magistratura per incidere nellazona grigia”.Dallo stesso pulpito, ad uno ad uno,vengono letti i nomi delle oltre 900 vittime innocenti delle mafie, tra lequali ci sono semplici cittadini, magistrati, giornalisti, appartenenti alleforze dell’ordine, sacerdoti, imprenditori, sindacalisti, esponenti politici eamministratori locali. Ognuno aspetta di sentire il proprio familiare sfuggireall’infame regola del numero: un nome pronunciato può restituire carne edignità a uomini e donne, altrimenti ricordati come appartenenti ad una cifrache si ostina ancora a crescere. Mi guardo intorno, vedo tante autorità,gonfaloni su gonfaloni, rappresentanti della stampa nazionale. Non certo pizzee fichi, direbbero alcuni. Eppure l’attenzione è tutta rivolta ad un nugolo disemplici persone che si stringono in lunghi abbracci: qualcuna di esse piange,qualcun’altra applaude, qualcun’altra ancora resta immobile, quasi impassibilead ascoltare. Magari quella lieve pronuncia è una piccola virgola segnata suuna pagina di storia, ma non riescono a pensare ad altro che a loro, a quei piccolinomi leggeri come farfalle date in pasto alla brezza di mare. Dal Porto Anticodi Genova, ad imperitura memoria.E i bambini tutt’intorno continuanoagiocare... loro che ne sanno del malee del vento che vuole portare via un ritratto sbiadito di famiglia? I piùanziani invece, ormai consunti dalle lacrime, nel chiedere condanne esemplarisperano ancora e soltanto nella giustizia divina. Come quei gabbiani che volano lentiall'orizzonte e si lasciano cullare dalle onde, speranzosi di riuscire acatturare uno dei pesci che i pescatori ributtano in mare.Quando ho deciso di parlare sul giornaledelle mie giornate a Genova, ho espresso alla caporedattrice il desiderio dinon farne una cronaca dettagliata, e lei mi ha risposto, sì, va bene, perchéno, fanne appunti di diario, ed io ho pensato, sì, giusto, ai familiari dellevittime glielo devo proprio uno sforzo particolare di sensibilità. Ma, comesempre accade in casi del genere, si è trattato poi di condividere sensazioniche alla fine mi sono sfuggite di mano. Perché mentre guardavo le foto di quelle madri, non potevo che pensare aquando, un giorno, in quei cuori v’impiantarono la tristezza.
da "Il Lametino", 24 marzo 2012