Tredici anni fa era il mio primo giorno di lavoro. Un lavoro strano, un salto nel buio, un’offerta venuta da un annuncio messo per caso e che avevo dimenticato, un colloquio al quale nemmeno volevo andare. Un ufficio molto bello, nel centro storico, un’attività incomprensibile, qualcosa a proposito del commercio di macchinari strani per barche, che nella mia città non abbiamo neppure un laghetto grande abbastanza da ospitarne una, anche piccola. Ci provo, mi dico, sicuramente meglio che in fabbrica dove, nell’attesa, facevo i turni in compagnia di un macchinario molto più umano di tanta gente. Il primo giorno di lavoro: una giornata alienante, dove persino spostare una matita era spaventoso, il terrore di alzare la cornetta e dimostrare il mio inglese, la paura folle di sbagliare. Era una ditta Americana di Seattle, il che rendeva abbastanza esotico ed affascinante raccontare del mio nuovo lavoro ad amici e parenti. E poi, dopo pranzo, boom. Tutto venne congelato: le torri gemelle emisero un frastuono tale, implodendo, da far tacere le e-mail per giorni, il telefono per settimane, il commercio per mesi. Invece, tredici anni dopo, siedo ancora alla stessa sedia, che nel frattempo è stata spostata in un nuovo ufficio. C’è ancora quel frastuono nell’aria, quel rumore sordo e quella polvere che prosciuga la saliva anche attraverso un telegiornale, e c’è ancora lo strascico di una crisi nata quello stesso giorno, quando molti fra i popoli più arroganti della Terra hanno fatto i conti con la propria vulnerabilità e preso coscienza che i loro valori, per quanto assunti ed apparentemente perfetti, non erano assoluti. Un salto nel buio nel giorno peggiore possibile, ho fatto, quel giorno. Il giorno più incredibile della mia vita.
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