Magazine Cinema
di Mario Martone
con Elio Germano, Michele Riondino, Isabella Aragonese
Italia, 2014
genere, biografico
durata, 137'
Un brillante futuro dietro le spalle per la prima volta di Leopardi al grande schermo.
Il giovane favoloso, applauditissimo alla settantunesima edizione del festival di Venezia, è arrivato nelle sale da poco, monopolizzando il panorama cinematografico italiano. Mario Martone, forte di una recente messa in scena delle Operette Morali (2011), nonché della vittoria del premio leopardiano La Ginestra, dirige Elio Germano in un biopic che incarna alla perfezione tutti gli stereotipi e i miti che ingiustamente accompagnano la figura del filosofo, poeta e filologo di Recanati.
La vicenda procede lentamente e indugiando sull'inessenziale, dalla fanciullezza del conte Giacomo trascorsa nella natia casa—in cui sono peraltro state girate molte scene— fino alla morte, esplorandone gli amori folli, lo studio matto, la rabbia giovane e inesplosa. La verve istrionica di Germano, esaltata dal difficile confronto con Massimo Popolizio nel ruolo dell'austero padre —come già accadde in Mio fratello è figlio unico di Luchetti—, e ravvivata dalla presenza di Michele Riondino nei panni dell'amorevole amico Antonio Ranieri, scivola spesso nell'eccesso, quasi fosse uno dei protagonisti di Freaks.
Splendida la fotografia capace di rendere la magnificenza di una natura di cui Giacomo avverte l'ineluttabile superiorità, tale persino da ricordare alcune tele paesaggistiche di Friedrich. Peccato per una scelta musicale schizofrenica —si passa da Rossini all'elettronica con grande nonchalance— che non contribuisce alla caratterizzazione del personaggio, spesso lasciata alla semplice lettura dell'intensa corrispondenza che Leopardi intrattenne con Pietro Giordani, suo mentore e guida spirituale. Il giovane favoloso è stato descritto da Martone come un "Kurt Cobain dell'Ottocento ". Lettura degli eventi "originale", dettata forse da un certo desiderio di rendere appetibile ai più
uno spirito complesso come Leopardi. Ma ormai non ci stupiamo più di nulla e con questa definizione il regista, lungi dall'avvicinare il poeta alla nostra sensibilità di moderni, finisce per stringere l'occhiolino a Schopenhauer e alla sua concezione del Mondo come nostra personale rappresentazione.
L'unica cosa che — con un pizzico di fantasia e grande generosità— potrebbe avvicinare Germano al celebre cantante è solo una colonna sonora tendente al groove, non certo quella malinconiaincapace di evolvere in ribellione che attanaglia il Leopardi secondo Martone a una a stasi che
tradisce la vivacità intellettuale del filosofo. Non a caso del suo mondo interiore —nella realtà variegato, nella pellicola racchiuso quasi unicamente dal vocabolo "malinconico"— viene proposta una ricostruzione visionaria, resa attraverso allusive occhiati omosessuali, abbuffate di gelato, frequentazioni di postriboli, il tutto sul continuo tintinnio della stessa lagna. È apprezzabile il tentativo di mostrare lo iato che divide l'animo del giovane filosofo tra ciò che vorrebbe fare e ciò cui invece si vede costretto da cause di forza maggiore —ora il padre, ora la malattia—. Ma quante domande e continue ricerche accompagnarono l'opera di Leopardi, qui invece immobile, quasi la macchietta del depresso nella sua stalattica posizione di gobbo infelice, seguace passivo delle idee rivoluzionarie dell'amico Ranieri!
Talvolta il silenzio sa essere più ribelle di mille grida —l'apparente quiete del poeta questo ci insegna—, ed è un vero peccato che anche il buon Leopardi sia stato così infelicemente tradito.
Erica Belluzzi
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